Il Giappone nella seconda guerra mondiale combatté schierato con le potenze dell'Asse (Italia e Germania), sotto l'influenza del militarismo giapponese che vedeva la guerra come principale strumento per consentire all'Impero nipponico di espandere i propri domini e la propria influenza. Lo scopo dei vertici militari giapponesi era quello di dotare la nazione di un vasto impero coloniale in Asia orientale, nel Sud-est asiatico e in Oceania, dal quale attingere ingenti risorse naturali e finanziarie per sostenere lo sviluppo economico della madrepatria. Il Giappone fece il suo ingresso nel conflitto con l'attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, che segnò il punto di rottura definitivo con gli Stati Uniti, che a loro volta si videro costretti ad entrare ufficialmente nella seconda guerra mondiale.
Le incursioni del Sol Levante nel Pacifico si contraddistinsero per una serie di iniziali successi, ma l'avanzata nipponica fu fermata a partire dal 1942 quando gli Stati Uniti iniziarono a prevalere. Nel corso della guerra, infatti il Giappone pur avendo inizialmente ottenuto notevoli vittorie, si trovò progressivamente sopraffatto dalla superiorità industriale e militare degli Alleati. Le ostilità si conclusero infine nel 1945, con la resa del Giappone dopo i devastanti bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, segnando il termine della sanguinosa Guerra del Pacifico. La capitolazione finale portò a un'occupazione americana, la quale riorganizzò il paese trasformandolo da una nazione militarista e teocratica a una democrazia laica e pacifica. Ciò ha posto le basi per un Giappone postbellico come valido partner economico e strategico per l'Occidente nello scenario dell'Estremo oriente, conteso da paesi del blocco comunista come URSS e Cina.
Antefatto
Militarismo giapponese
La cultura militarista durante l'espansionismo giapponese rivestì un ruolo di grande importanza, prima e durante la Seconda guerra mondiale. Secoli prima i guerrieri samurai del Giappone feudale avevano imparato a obbedire senza esitazioni ai loro signori, così come a essere coraggiosi in battaglia secondo i dettami del bushidō. Con il Rinnovamento Meiji e il crollo dello Shogunato Tokugawa, l'Imperatore del Giappone divenne il fulcro della lealtà militare. Dalla fine del XIX secolo, il Giappone intraprese la strada delle altre potenze mondiali nel tentativo di costruire un impero, perseguendo questo obiettivo in modo aggressivo e bellicoso. Come le altre potenze imperiali, la cultura giapponese dell'epoca divenne progressivamente sempre più militarista. L'ascesa del nazionalismo giapponese fu in parte dovuta all'adozione dello shintoismo di Stato, che venne poi integrato nel sistema educativo. Lo shintoismo sosteneva che l'imperatore fosse una figura divina, venendo considerato un discendente della dea Amaterasu. Questo concetto contribuì a giustificare l'esigenza di un'obbedienza incondizionata all'imperatore e ai suoi rappresentanti nel governo nazionale. La vittoria del Giappone nella Prima guerra sino-giapponese (1894-1895), segnò l'ingresso tra le grandi potenze militari mondiali. A differenza di altri paesi influenti il Giappone non firmò le Convenzioni di Ginevra, le quali stabilivano il trattamento umanitario dei civili e dei prigionieri di guerra. Questo clima aggressivo e fortemente bellicista, coadiuvato da un forte sentimento patriottico e religioso, modellarono il popolo giapponese dell'epoca trasformandolo in una "macchina da guerra" irriducibile. I soldati erano disposti a dare la vita per l'imperatore, mentre i civili accettavano di buon grado sacrifici e sofferenze per sostenere gli sforzi bellici della Patria nella creazione di un vasto e fiorente impero coloniale.
Invasione della Manciuria
Dopo aver già invaso Taiwan e la Corea nel Periodo Meiji, il Giappone al principio del Periodo Shōwa era alla ricerca di nuovi territori su cui espandersi. La Manciuria, una regione ricca di minerali, risorse agricole e dotata di una posizione geografica strategica, rappresentava un crocevia importante per il Giappone. Oltre alla questione economica, le motivazioni politiche e militari furono determinanti. I giapponesi infatti desideravano consolidare la loro potenza nella regione per contrastare l'influenza della Cina e delle grandi potenze occidentali.
Nel settembre del 1931 l'incidente di Mukden fu il casus belli che giustificò l'invasione giapponese. L'evento coinvolse un'esplosione lungo la zona ferroviaria della Manciuria meridionale. Il Giappone accusò i cinesi di aver causato l'incidente, sebbene molti storici ritengano che fu una messa in scena orchestrata dai giapponesi stessi come pretesto per l'occupazione militare. Difatti sfruttando l'incidente, l'Esercito imperiale giapponese, in particolare l'Armata del Kwantung, invase rapidamente la regione e ne prese il controllo fondando il Manciukuò, uno Stato fantoccio sotto l'influenza del Giappone. I nipponici affidarono la sovranità ufficiale dello Stato a Pu Yi, ultimo imperatore della Dinastia Qing. Tuttavia Pu Yi era completamente sotto il controllo giapponese e il Manciukuò divenne soltanto uno strumento del Giappone per giustificare la propria presenza e il suo dominio in quel territorio. Sebbene il governo imperiale giapponese cercò di presentare la sua amministrazione come una "protezione" per il Manciukuò, la realtà era ben diversa. Durante l'occupazione fu attuata una repressione brutale delle forze antagoniste cinesi, con tanto di deportazione della popolazione locale ed esportazione coatta delle risorse naturali presenti nella regione per soddisfare le necessità del Giappone industrializzato.
Conflitto con la Cina
Lo scoppio della Seconda guerra sino-giapponese con l'occupazione in larga scala della Cina, è uno degli eventi cruciali che ha preceduto la il secondo conflitto mondiale e ha avuto un impatto profondo sul corso della storia asiatica e mondiale. Questo scontro vedeva il Giappone imperialista impegnato contro la Repubblica di Cina. È stato un evento di enorme portata, tantoché le sue conseguenze si sono estese ben oltre la fine della guerra. Il conflitto tra Cina e Giappone affonda le radici in rivalità imperialiste che risalgono a decenni prima. In particolare dopo la Prima guerra sino-giapponese, la cui vittoria nipponica stabilì la fine dell'egemonia cinese in Estremo oriente e il passaggio di sovranità dell'isola di Formosa all'Impero giapponese. Così dopo aver esteso e consolidato il proprio controllo in Manciuria, le mire espansionistiche del Giappone volgevano al resto dell'immensa Cina.
Il 7 luglio 1937 l’Incidente del ponte di Marco Polo, avvenuto nei pressi di Pechino, fu l'episodio che scatenò formalmente la guerra. L'incidente nacque da un conflitto tra le forze giapponesi e quelle cinesi, ma il Giappone lo utilizzò come pretesto per lanciare un'offensiva su larga scala in tutta la Cina. Sebbene le circostanze precise siano ancora oggetto di dibattito, è chiaro che l’incidente non fu un attacco improvviso ma l'ennesima provocazione appositamente voluta dal Giappone per giustificare l'invasione militare.
Grazie alla sua superiorità l'esercito imperiale avanzò rapidamente in territorio cinese, ma nonostante le difficoltà la Cina, sotto la guida del Kuomintang di Chiang Kai-shek e del Partito Comunista Cinese di Mao (Secondo Fronte Unito), continuò a resistere. Il conflitto diventò rapidamente una guerra totale. La resistenza cinese ricevette sostegno da parte degli Stati Uniti d'America, che iniziarono a fornire aiuti militari e finanziari per contrastare la minaccia bellica rappresentata dai nipponici. Il Giappone così si trovò sempre più isolato sulla scena internazionale, mentre la resistenza cinese si fece più organizzata e difficile da piegare. In maniera simile a quanto fatto in Manciuria, una volta occupata la Mongolia interna l'impero giapponese vi creò lo Stato fantoccio del Mengjiang. L'entità politica non aveva reale indipendenza ma risultava un mero strumento del Giappone per intensificare il proprio controllo nella Cina settentrionale.
Durante la primavera del 1938 la vittoria dei nazionalisti cinesi nella Battaglia di Taierzhuang segnò un punto di svolta per la resistenza cinese e fu festeggiata con grande enfasi. La sconfitta mostrò le prime evidenti lacune delle forze giapponesi, che poco numerose credevano di poter contare solo sul proprio spirito combattivo contro un nemico ben più numeroso che controllava un territorio dall'estensione notevole. A quel punto l'offensiva giapponese volse verso Xuzhou, la quale venne attaccata sia da nord che da sud. La manovra portò alla distruzione di numerose unità cinesi, ma non riuscì a dare un contributo significativo all'avanzata nipponica. I giapponesi si ritrovarono ostacolati da una fitta coltre di nebbia e presto dovettero fare i conti con la fame e la mancanza di rifornimenti. Durante l'estate seguente le truppe imperiali marciavano in direzione di Wuhan, importante fulcro difensivo cinese nello Yangzi. Chiang Kai-shek per fermare l'avanzata nemica, ordinò di danneggiare le dighe del Fiume Giallo nella provincia di Henan. Ciò diede luogo ad estesi allagamenti che isolarono le truppe giapponesi, ma che al contempo causarono la morte di quasi un milione di civili cinesi e una quantità quattro volte maggiore di sfollati. La campagna di Wuhan fu sospesa, quando alla frontiera tra Corea e Unione Sovietica iniziarono scontri armati tra le forze nipponiche e quelle comuniste. Si trattava di una prova generale dei sovietici per testare le difese giapponesi nella regione, in ogni caso il Giappone, rimase intimorito dalla possibilità che l'URSS entrasse in guerra al fianco della Cina. Difatti dopo l'invasione giapponese della Manciuria, l'Armata Rossa aveva moltiplicato le proprie truppe in Siberia per arginare un'espansione nipponica nell'Estremo oriente russo. Gli scontri alla frontiera ebbero però breve durata, così in data 22 agosto il quartier generale delle forze armate imperiali comandò la ripresa dell'offensiva a Wuhan, che cadde il 26 ottobre. Malgrado una Cina mantenuta divisa, i giapponesi non riuscivano a piegare completamente la resistenza nemica, così quando la Germania Nazista si lanciò nell'occupazione della Polonia che scaturì l'inizio della Seconda guerra mondiale, il Giappone era ancora impegnato nelle sue battaglie sul fronte cinese.
Massacro di Nanchino
La città di Nanchino, che era la capitale della Repubblica di Cina sotto la guida di Chiang Kai-shek, venne messa sotto assedio dalle forze giapponesi. Il 9 dicembre 1937, dopo un lungo assedio, le truppe giapponesi entrarono a Nanchino. Le forze giapponesi, che avevano già mostrato segni di brutalità durante la campagna in Cina, iniziarono una serie di atti di violenza indiscriminata contro la popolazione civile e i prigionieri di guerra cinesi. Il massacro durò circa sei settimane, dal 13 dicembre 1937 fino alla fine di gennaio 1938. Il bilancio delle vittime è ancora oggetto di dibattito, con stime che variano tra 200.000 a oltre 300.000 morti. Le atrocità commesse durante il massacro furono sistematiche e metodiche. Gli ufficiali giapponesi guidati dal comandante di campo Iwane Matsui, ordinarono di eliminare ogni resistenza, ma la violenza attuata dai soldati imperiali si estese ben oltre le operazioni militari.
Migliaia di prigionieri di guerra cinesi vennero catturati e giustiziati sommariamente. Le vittime venivano fucilate, decapitate, o addirittura sepolte vive. In molti casi i soldati giapponesi utilizzarono i civili per esercitarsi nel tiro al bersaglio. Una delle atrocità più orribili del massacro fu l'ondata di stupri. Si stima che decine di migliaia di donne cinesi, tra cui bambine e anziane, siano state violentate dai soldati imperiali. Molte donne furono poi uccise dopo gli abusi e in alcuni casi vennero costrette a subire stupri pubblici per il divertimento delle truppe giapponesi. Durante l'occupazione inoltre i soldati giapponesi razziarono la città. Molti beni furono rubati, le case e gli edifici incendiati. Le istituzioni culturali come biblioteche e musei, furono distrutte. Nonostante la città fosse costituita per lo più da civili, le forze giapponesi continuarono a massacrare indiscriminatamente la popolazione inerme, senza distinzione di età o sesso. Le strade erano disseminate di corpi e le esecuzioni pubbliche erano parte di una sistematica politica di terrore, volta ad affermare la supremazia del Giappone sulla Cina. L'impero puntava quindi a diffondere il terrore tra la popolazione cinese, demotivando qualsiasi possibile rivolta.
Progetto della Grande Asia Orientale
Il progetto della Grande Asia Orientale fu una politica imperialista promossa dal Giappone a partire dagli anni '30, in particolare durante la Seconda guerra sino-giapponese e la Seconda guerra mondiale. Questo ambizioso progetto mirava a creare un blocco di nazioni asiatiche sotto la guida del Giappone, unendo l'Asia sotto un'unica egemonia giapponese, al fine di sfidare le potenze imperialistiche occidentali come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia. La giustificazione ideologica alla base di questo progetto risiedeva nel panasiatismo, una corrente di pensiero che promuoveva l'unità dei popoli asiatici contro l'oppressione occidentale, ma che in pratica si tradusse in un progetto di dominazione giapponese. Secondo il governo militare nipponico, solo il Giappone come nazione più avanzata e civilizzata dell'Asia, era in grado di guidare gli altri popoli asiatici verso una prosperità condivisa, senza l'oppressione coloniale dell'Occidente. La retorica giapponese giustificava quindi l'espansione militare come una "missione civilizzatrice", in cui il Giappone avrebbe "salvato" l'Asia dall'imperialismo europeo e americano. Il Giappone cominciò a delineare concretamente il suo progetto attraverso la creazione della Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale. Questo termine fu usato come un'iniziativa ideologica e politica per promuovere l'alleanza tra le nazioni asiatiche sotto l'egemonia giapponese. La Sfera di Co-Prosperità venne annunciata dal Giappone come un'alternativa al dominio delle potenze imperialistiche occidentali, promettendo libertà economica e culturale per i popoli asiatici, ma in realtà rappresentava un'imposizione di dominio politico, economico e culturale da parte dell'Impero giapponese. A tal proposito il Giappone intendeva porre fine alla predominanza delle altre potenze coloniali in Asia, limitando la loro influenza commerciale e politica nella regione.
Patto Tripartito
Il Patto Tripartito, noto anche come l'"Asse Roma-Tokyo-Berlino", fu un'alleanza militare e politica firmata il 27 settembre 1940 tra Italia, Germania e Giappone. Costituì la base per la cooperazione tra le principali potenze dell'Asse durante la Seconda guerra mondiale. Questa alleanza mirava a rafforzare la posizione dei firmatari contro le potenze Alleate, Regno Unito e Francia, successivamente anche gli Stati Uniti, che avrebbero assunto un ruolo determinante nel conflitto. Il Patto Tripartito non solo consolidò la cooperazione fra le tre nazioni, ma segnalò anche una strategia comune volta a dividere e ridefinire l'equilibrio della geopolitica mondiale, con il Giappone che cercava di espandere la sua sfera di influenza in Asia e nel Pacifico, la Germania che tentava di consolidare il suo dominio in Europa, e l'Italia impegnata a rafforzare il suo ruolo nel Mediterraneo e in Africa. Il Giappone era formalmente nelle mani di Hirohito, ma si ritrovava governato in realtà da una spietata dittatura militare che vedeva l'alleanza con la Germania e l'Italia, un modo per rafforzare la posizione internazionale dell'impero e ottenere il supporto politico e militare necessario per la sua espansione territoriale.
Il Patto Tripartito stabiliva che un attacco contro uno dei membri sarebbe stato considerato come un attacco contro gli altri due. Questo fu il principio che legò i tre paesi, anche se la cooperazione pratica su questo fronte fu limitata. In particolare la Germania e l'Italia non si impegnarono a supportare il Giappone nella sua guerra contro gli Stati Uniti, principalmente per una questione di distanza geografica. A sua volta il Giappone non si unì direttamente alla guerra contro l'Unione Sovietica, essendo impegnato in Cina e sul fronte del Pacifico.
Occupazione dell'Indocina
Nel periodo che precedette l'entrata del Giappone nella Seconda guerra mondiale, il paese intraprese una serie di azioni aggressive nel Sud-est asiatico, tra cui l'invasione dell'Indocina francese. Il territorio dell'Indocina rappresentava una posizione geografica di vitale importanza per il Giappone. Controllandola il Giappone avrebbe avuto facile accesso alle risorse naturali del Sud-est asiatico, in particolare alle risorse minerarie e petrolifere in Malesia e nelle Filippine, che erano sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali.
Nel settembre del 1940 le forze giapponesi, approfittando della debolezza del governo di Vichy entrarono nell'Indocina francese. Il Giappone si accordò con il governo di Vichy per mantenere formalmente il controllo francese sulla regione, ma nella realtà l'occupazione giapponese divenne sempre più evidente. L'anno successivo le forze giapponesi iniziarono a stabilire basi militari nel Vietnam settentrionale, accelerando l'occupazione dell'intera regione.
L'invasione giapponese della Thailandia si verificò invece l'8 dicembre 1941, poco dopo Pearl Harbor. Il Giappone inviò truppe attraverso il confine della Birmania per occupare rapidamente il territorio thailandese. Nonostante l'invasione, la Thailandia non oppose una resistenza significativa. Le truppe giapponesi avanzarono rapidamente e il governo thailandese sotto la pressione nipponica, decise di firmare un armistizio con il Giappone il 21 dicembre 1941. Come parte dell'accordo, la Thailandia concesse al Giappone il diritto di utilizzare il suo territorio come base per l'espansione militare, in cambio della promessa che il Giappone riconoscesse l'indipendenza della Thailandia.
Embargo petrolifero
Il 26 luglio 1941 gli Stati Uniti, il Regno Unito e i Paesi Bassi decisero di applicare un embargo totale sul petrolio destinato al Giappone, a causa delle sue azioni aggressive in Cina e del suo intento di espandere la sua influenza in Asia sudorientale. Questa decisione fu la risposta diretta agli sviluppi militari in Indocina e all'occupazione da parte del Giappone di quella regione, che era stata una colonia francese. L'embargo petrolifero limitava severamente le forniture di petrolio al Giappone, costringendolo ad affrontare una grave scarsità di risorse energetiche. In quel periodo gli USA e i Paesi Bassi, attraverso le Indie Orientali Olandesi (attuale Indonesia), erano tra i principali fornitori di petrolio per il Giappone. Gli Stati Uniti inoltre avevano già imposto diverse sanzioni economiche e commerciali nei confronti del Giappone, incluse restrizioni sulle esportazioni di acciaio, alluminio e altre materie prime vitali per l'industria bellica giapponese. La decisione di imporre l'embargo fu influenzata dalla crescente preoccupazione per l'aggressività giapponese, ma anche dal desiderio di impedire che il Giappone si rafforzasse ulteriormente e minacciasse la stabilità dell'intera regione. In risposta il Giappone cercò di trovare alternative, come ad esempio la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento di petrolio. A tal proposito intensificò la sua politica di espansione.
L'embargo petrolifero mise il Giappone in una posizione difficile, poiché il paese dipendeva fortemente dalle importazioni di petrolio per alimentare la sua macchina da guerra e mantenere la sua economia industriale. A causa della mancanza di risorse naturali, il Giappone doveva fare affidamento su fonti esterne, in particolare sul petrolio proveniente dall'area del Sud-est asiatico. La scarsità di petrolio in Giappone e la crescente pressione economica portarono il governo imperiale a riconsiderare la sua strategia. La mancanza di rifornimenti di carburante per le forze armate giapponesi divenne una questione cruciale. Il Giappone infatti aveva bisogno di accedere alle risorse naturali delle regioni che stava cercando di conquistare, in particolare nelle Indie Orientali Olandesi, che possedevano immensi giacimenti di petrolio. La sua strategia di espansione venne quindi accelerata, portando alla decisione di attaccare le Filippine, la Malesia, le Indie Orientali Olandesi e altre aree ricche di risorse.
La risposta del Giappone all'embargo petrolifero si concretizzò con l'entrata nella Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali avevano sperato che l'embargo potesse indurre il Giappone a fermare la sua espansione, ma la mancanza di risorse e la crescente pressione sul paese portarono invece l'impero asiatico a rispondere con l'uso della forza. Nel complesso si può quindi affermare, che l'embargo petrolifero del luglio 1941 fu una delle misure chiave che condussero il Giappone alla guerra.
Entrata in guerra
Attacco di Pearl Harbor
Già a partire dal 26 novembre 1941, una flotta giapponese composta da 6 portaerei, 2 incrociatori, 1 sottomarino e 11 navi da supporto; salpò dalle coste giapponesi per dirigersi verso le Hawaii. Durante il viaggio la flotta rimase nascosta da radar e altre tecniche di sorveglianza, riuscendo ad avvicinarsi senza essere rilevata. L'attacco a Pearl Harbor ebbe inizio alle 7:48 del mattino del 7 dicembre 1941, quando 353 aerei giapponesi tra cui bombardieri e cacciatorpediniere, attaccarono in due ondate. La sorpresa fu totale, poiché la base navale americana non si aspettava un attacco di quella portata e di conseguenza le forze in allerta non erano preparate a reagire prontamente. La prima ondata colpì principalmente la flotta ancorata nella baia antistante, con attacchi aerei rivolti contro le navi da guerra statunitensi. I bombardieri giapponesi distrussero o danneggiarono gravemente 8 corazzate della US Navy. La più nota tra queste era la USS Arizona, che esplose durante l'attacco, causando la morte di oltre 1.100 uomini a bordo. La seconda ondata arrivò poco dopo, concentrandosi su altre installazioni navali e aeree, come gli aeroporti e le strutture di stoccaggio di carburante. Gli aerei giapponesi usarono sia bombe convenzionali che siluri, causando danni significativi alle navi e agli aerei americani. Alla fine dell'attacco, gli Stati Uniti persero 8 navi da guerra (incluse 4 corazzate), 188 aerei e subirono ben 2.403 morti, di cui molti erano marinai e aviatori.
Negli Stati Uniti, l'attacco suscitò un'ondata di shock e indignazione. Il presidente Franklin Delano Roosevelt, dopo aver appreso della devastante notizia, pronunciò un famoso discorso, dichiarando che il 7 dicembre sarebbe stato "una data che vivrà nell'infamia". Il Congresso degli Stati Uniti, in un'atmosfera di unità nazionale, dichiarò guerra al Giappone il giorno successivo, l'8 dicembre 1941. Pochi giorni dopo, l'11 dicembre, la Germania e l'Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti, portando il conflitto a livello globale. Tuttavia non solo gli USA dichiararono guerra al Giappone, ma anche il Giappone stesso dichiarò loro guerra, con un atto formale datato 11 dicembre 1941, quattro giorni dopo Pearl Harbor. La dichiarazione fu comunicata al governo statunitense dall'ambasciatore giapponese a Washington, Kichisaburō Nomura. La sua dichiarazione fu accompagnata da una lettera ufficiale, in cui venivano spiegate le motivazioni dell'aggressione giapponese. L'atto ufficiale di dichiarare guerra fu un passo importante per il Giappone, che sperava di consolidare il suo dominio nel Pacifico prima che gli USA potessero reagire con la loro forza militare.
In Giappone, l'attacco fu considerato dall'opinione pubblica una preziosa vittoria iniziale, ma l'obiettivo strategico non fu completamente raggiunto. Sebbene le navi da guerra e gli aerei degli Stati Uniti fossero stati seriamente danneggiati, la flotta giapponese non riuscì a colpire le portaerei americane, che al momento dell'attacco si trovavano fuori dalla base. Inoltre le strutture di carburante e le installazioni a terra furono parzialmente risparmiate.
Offensiva nelle Filippine e a Singapore
Le Filippine erano una colonia degli Stati Uniti dal 1898, cioè da quando ebbe fine la dominazione spagnola. L'arcipelago era quindi protetto dalla presenza di numerose forze militari americane. La difesa delle Filippine era principalmente affidata all'esercito statunitense sotto il comando del generale Douglas MacArthur, che aveva organizzato una linea difensiva sulle isole principali di Luzon e Mindanao. Nonostante ciò la preparazione delle forze statunitensi era insufficiente rispetto alla minaccia giapponese, soprattutto considerando che gli Stati Uniti avevano recentemente ridotto la loro presenza militare nella regione, a causa dei loro impegni in Europa e in altre aree del mondo. L'8 dicembre 1941, poche ore dopo l'attacco nella baia di Pearl Harbor, le forze militari del Giappone iniziarono l'offensiva contro le Filippine, lanciando violenti attacchi aerei. Le basi aeronautiche americane nelle Filippine furono colpite con forza e gli aerei giapponesi distrussero quasi tutta la forza aerea statunitense sul campo, privando gli USA di un'importante difesa aerea. Contemporaneamente altre unità giapponesi iniziarono a sbarcare a Luzon, l'isola principale delle Filippine. L'operazione giapponese prevedeva un attacco massiccio per distruggere la resistenza americana e filippina. Il piano di invasione includeva l'occupazione della capitale Manila, che fu dichiarata "città aperta" per evitare distruzioni massicce, ma anche per guadagnare tempo. Nonostante il colpo devastante, gli Alleati tentarono di resistere. Le truppe filippine e statunitensi combatterono duramente, ma la superiorità numerica e materiale dei giapponesi risultò travolgente. Sotto la pressione degli attacchi nipponici, le forze alleate si ritirarono verso la penisola di Bataan, dove organizzarono una difesa disperata. Nel gennaio del 1942, MacArthur ordinò una ritirata finale a Corregidor, un'isola fortificata poco distante da Manila, dove gli statunitensi continuarono a combattere fino alla resa del 6 maggio successivo. La resa delle Filippine fu un duro colpo per gli USA e segnò una delle prime grandi vittorie giapponesi.
Singapore era invece conosciuta come "la Gibilterra del Pacifico", in quanto roccaforte strategica dell'Impero britannico. Era infatti una delle basi militari più fortificate al mondo e si pensava che fosse inespugnabile. La sua posizione geografica lungo la rotta verso l'Australia la rendeva un punto cruciale per il controllo del Sud-est asiatico. La difesa di Singapore era affidata principalmente alle forze armate britanniche, composte da soldati britannici, australiani, indiani e locali, sotto il comando del generale Arthur Percival. Le forze britanniche erano convinte che un attacco giapponese sarebbe stato portato dal mare e di conseguenza avevano concentrato la maggior parte delle loro difese sulla parte meridionale della penisola di Malacca, da dove la Marina imperiale giapponese avrebbe probabilmente attaccato. Il piano giapponese prevedeva un'avanzata veloce verso Singapore, iniziando con un'invasione terrestre dalla Malesia. I soldati giapponesi agli ordini del generale Tomoyuki Yamashita sfruttarono l'effetto sorpresa, attaccando attraverso la giungla malese, dove le difese britanniche non erano adeguatamente preparate. Nonostante la superiorità numerica e tecnologica della marina e dell'aviazione britannica, i giapponesi ottennero rapidamente il controllo della regione. L'8 dicembre, il giorno stesso in cui iniziò l'invasione delle Filippine, le forze giapponesi sbarcarono a Kota Bharu, sulla costa orientale della penisola malese e iniziarono a spingersi verso sud in direzione di Singapore. I nipponici avanzarono con rapidità, contrariamente alle previsioni britanniche. Il terreno difficile e la mancanza di preparazione logistica delle forze alleate resero difficile la resistenza. In breve tempo i militari giapponesi arrivarono a Johor. Singapore si trovava quindi sotto grave minaccia, essendo i nemici sempre più vicini. Nonostante i disperati tentativi di difesa, la città di Singapore fu circondata e assediata dai giapponesi. Le difese britanniche crollarono rapidamente e così il 15 febbraio 1942, dopo una settimana di intensi combattimenti, il generale Percival dovette arrendersi agli invasori giapponesi. L'occupazione giapponese di Singapore fu uno dei momenti più umilianti della Seconda guerra mondiale per l'Impero britannico, che come testimoniato da Winston Churchill, perse una delle sue principali basi nel Pacifico e subì ingenti perdite.
L'attacco simultaneo nelle Filippine e a Singapore, ad opera principalmente dell'Armata giapponese di Taiwan, segnò l'inizio di un periodo di rapida espansione giapponese nelle regioni del Sud-est asiatico e del Pacifico. Questa vittoria nipponica permise loro di consolidare il controllo su un'ampia parte di territorio strategico, tra cui le ricche risorse petrolifere delle Indie Orientali Olandesi; fondamentali per sostenere la macchina da guerra giapponese.
Conquista di Hong Kong
La Battaglia di Hong Kong ebbe inizio anch'essa l'8 dicembre 1941 e si protrasse fino al successivo giorno di natale. Hong Kong era una colonia britannica dal 1842, acquisita alla fine della Prima guerra dell'oppio. Era uno dei principali centri finanziari e commerciali dell'Impero britannico e la sua posizione strategica lo rendeva un obiettivo interessante. Inoltre data la distanza relativamente breve che intercorre tra suddetta città e Taiwan, parte integrante del dominio nipponico, era fondamentale per i giapponesi assumerne quanto prima il controllo. Oltretutto possedere Hong Kong significava avere un potenziale vantaggio strategico anche nella guerra contro la Cina.
Le forze difensive di Hong Kong erano costituite da circa 14 000 soldati in totale, tra cui circa 2.000 canadesi, 10.000 britannici e circa 2.000 indigeni di etnia cinese. Nonostante la determinazione nel difendere la colonia, le forze alleate erano notevolmente inferiori in numero rispetto agli aggressori provenienti dal Giappone, che schiero addirittura oltre 50 000 uomini ben equipaggiati e dotati di armi moderne tra cui carri armati, aerei da bombardamento ed efficienti imbarcazioni da guerra. La superiorità numerica e tecnologica delle forze giapponesi risultava perciò schiacciante. La battaglia quando le forze giapponesi sbarcarono a Kowloon, una delle principali zone costiere di Hong Kong. I soldati imperiali approfittarono della mancanza di preparazione da parte delle forze alleate. I giapponesi penetrando nella città la aggredirono con una combinazione di attacchi via terra e via aerea. Gli bombardamenti aerei giapponesi danneggiarono severamente le infrastrutture e le linee di comunicazione delle forze alleate. Nei giorni successivi gli invasori avanzarono verso il sud-est di Hong Kong, annientando una dopo l'altra le divisioni nemiche. Apparve evidente fin da subito che la vittoria giapponese sarebbe stata l'unico esito possibile, tuttavia i militari Alleati resistettero per circa due settimane. Con l'occupazione giapponese, la città fu sottoposta a una severa repressione, con i giapponesi che imposero la legge marziale, pratiche di lavoro forzato e altri terribili abusi contro la popolazione civile. Molti cinesi furono costretti a lavorare per le forze armate giapponesi e migliaia di persone vennero persino deportate o uccise. Dal punto di vista alleato, la caduta di Hong Kong rappresentò una grande perdita simbolica e strategica, poiché dimostrava la vulnerabilità delle difese britanniche nel Pacifico e la determinazione giapponese nel perseguire la sua espansione.
Assalto all'Oceano Indiano
L’incursione giapponese nell'Oceano Indiano è un altro episodio significativo della guerra. Vide una serie di operazioni militari strategiche svolte dalla marina e dall'esercito imperiale. L’obiettivo principale del Giappone era il controllo delle rotte marittime vitali tra l’Asia orientale e il Raj britannico, in particolare per rallentare o fermare l’afflusso di rifornimenti degli Alleati attraverso il Canale di Suez e l’Oceano Indiano. L'intento era anche quello di destare instabilità e fomentare il movimento d'indipendenza indiano, in particolare attraverso il supporto all'esercito nazionale) di Subhas Chandra Bose, che in seguito fonderà il governo dell'India Libera, allineato con le potenze dell'Asse. Da questo punto di vista furono importanti le operazioni militari nello Sri Lanka e la Campagna della Birmania, iniziata a partire dal Dicembre 1941. L'invasione ebbe inizio da Rangoon, città chiave per il controllo della nazione invasa. Le divisioni dell'Esercito imperiale giapponese avanzarono rapidamente, sfruttando la debole resistenza delle truppe britanniche, che erano scarsamente equipaggiate e mal coordinate. I giapponesi utilizzarono le forze corazzate e l'aviazione per penetrare e abbattere le difese nemiche. Nonostante gli Alleati si opponessero all'avanzata giapponese, l'occupazione fu un successo e le forze giapponesi costrinsero le truppe alleate a ritirarsi verso l'India, consentendo la conquista giapponese della Birmania. Assunto il controllo del paese i nipponici diedero il potere a Ba Maw e istituirono lo Stato di Birmania, ennesima entità politica sotto l'influenza del Grande Giappone imperiale. In seguito alla cocente sconfitta, il governo britannico della Birmania si trasferì a Shimla nel nord dell’India, dove continuò ad affermare la propria sovranità sulle regioni birmane non occupate dall’Impero giapponese. Gli Alleati iniziarono un processo di reclutamento della popolazione indigena nelle zone di frontiera per la formazione di unità di guerriglieri in grado di opporre resistenza ai giapponesi, come poi nel caso della Battaglia di Kohima.
Pochi mesi più tardi fu il turno dell'isola di Ceylon. L'obiettivo principale dei nipponici era quello di assicurarsi il controllo sul porto di Colombo, che consentiva di gestire i traffici marittimi dal subcontinente indiano all'Asia sudorientale. A marzo l'Impero del Giappone diede inizio all'Operazione C per la conquista dell'isola. Il 5 aprile 1942 un attacco giapponese distrusse buona parte della flotta alleata nel porto della capitale coloniale, ma non riuscì a infliggere danni irreparabili alle infrastrutture del territorio. Quattro giorni dopo, la battaglia nei cieli di Ceylon fece scontrare gli attacchi aerei giapponesi contro le difese aeree alleate. Nonostante l'attacco, le forze del Giappone non riuscirono a occupare l'isola e dovettero ritirarsi, ottenendo una vittoria tattica ma senza consolidare il dominio su Ceylon. Ciò pose di conseguenza pose un freno alle mire espansionistiche del Giappone verso l'India.
Duello nel Pacifico
Presa dell'Indonesia
Il 10 gennaio 1942 le forze militari giapponesi iniziarono a muoversi verso l'arcipelago indonesiano. Gli Alleati di stanza nella regione includevano principalmente truppe olandesi (giacché l'Indonesia era colona dei Paesi Bassi), australiane e britanniche. Tali unità erano piuttosto deboli e mal preparate. Inoltre l'occupazione della Malesia e delle Filippine aveva indebolito ulteriormente le capacità difensive alleate. I giapponesi iniziarono con la conquista del Borneo e di Celebes. Mentre le difese alleate si rivelarono come previsto inefficaci, e le forze belliche giapponesi continuarono ad avanzare. La grande isola di Giava divenne il prossimo obiettivo strategico, con i soldati giapponesi che marciavano verso la capitale Batavia (attuale Giacarta), spingendo rapidamente le difese nemiche verso la ritirata.
In questo scenario, la Battaglia di Giava fu un combattimento decisivo che si svolse tra il 27 febbraio e il 9 marzo 1942. Dopo che la capitale Batavia cadde senza particolari resistenze il 5 marzo, le forze alleate tentarono disperatamente di rallentare l'avanzata nipponica. La battaglia fu caratterizzata da scontri terrestri e marittimi. Le milizie giapponesi, tra cui molti volontari Takasago, erano supportate da una potente macchina da guerra navale e aerea, così riuscirono a sopraffare le forze alleate, che non avevano sufficienti risorse per resistere efficacemente. La sconfitta alleata a Giava segnò il fallimento della difesa dell'isola, con la ritirata delle forze alleate verso Australia e altri rifugi più sicuri. Dopo la caduta di Giava, le forze giapponesi continuarono la loro avanzata nelle Indie Orientali Olandesi, con il prossimo obiettivo rappresentato da Timor. L'isola era divisa tra i portoghesi (nella parte orientale) e gli olandesi (nella parte occidentale). Si trovava in una posizione strategica per il controllo dell'intero arcipelago. Le forze imperiali giapponesi iniziarono a invadere la parte occidentale di Timor, mentre la parte orientale rimase sotto il controllo portoghese, vista la neutralità dell'Estado Novo nel conflitto globale. Gli Alleati cercarono di resistere all'invasione, ma furono rapidamente sopraffatti. Nonostante la difficoltà nel difendere l'isola, le forze alleate si fecero comunque valere e adottarono una strategia di guerriglia, compiendo raid contro le forze giapponesi occupanti. I soldati australiani condussero un’intensa resistenza nelle giungle dell'isola, infliggendo considerevoli perdite alle unità giapponesi. Nel successivo mese di giugno, le truppe giapponesi riuscirono infine a conquistare l'intera isola, ma la guerriglia continuò fino all'anno seguente. Sebbene non fu una grande battaglia come quelle avvenute a Giava o nel Mare di Giava, quella di Timor fu significativa per la resistenza alleata che continuò anche dopo la conquista dell'isola da parte giapponese.
Scontro nel Mar dei Coralli
La Battaglia del Mar dei Coralli, combattuta dal 4 all'8 maggio 1942, è stata la prima battaglia tra portaerei della storia, in cui le forze navali giapponesi e alleate (principalmente USA e Australia) si affrontarono in un conflitto decisivo per il controllo delle rotte marittime e la protezione delle posizioni strategiche nel Pacifico meridionale. L'occupazione giapponese di territori nel sud-est asiatico e nell'Oceania minacciava le rotte commerciali cruciali per gli Alleati. Dopo aver occupato le Filippine, Hong Kong, Singapore e altre isole, il l'Impero del Giappone stava puntando a invadere la Nuova Guinea, mentre la proposta di invasione giapponese dell'Australia si faceva sempre più concreta nella mente degli strateghi militari nipponici. Le forze giapponesi erano costituite principalmente da una flotta Combinata con portaaerei di classe Shokaku come la Zuikaku e altre navi di supporto. L'obiettivo giapponese era l'invasione della città di Port Moresby, che ospitava un'importante base navale sull'isola di Nuova Guinea, difesa dalla Royal Australian Navy e dai marines americani. La battaglia si è svolse principalmente nell'area tra la Nuova Guinea e le Isole Salomone, una regione di grande importanza strategica.
Quando le forze giapponesi lanciarono il loro attacco contro Port Moresby, per fermare questa invasione gli Stati Uniti e le forze alleate schierarono i loro aerei da combattimento e lanciarono attacchi contro le unità navali giapponesi. La battaglia fu segnata da una serie di attacchi aerei tra le forze giapponesi e quelle alleate, poiché le navi di entrambe le parti si trovavano a distanza di volo l'una dall'altra. Il 7 maggio, le portaerei giapponesi attaccarono le navi alleate, ma furono contrastate dai caccia e dai bombardieri alleati. Durante questa fase, gli Alleati pur subendo pesanti perdite e danni, riuscirono a colpire una portaerei giapponese, arrecandole ingenti danni. L'8 maggio la battaglia raggiunse il suo culmine. Durante questo scontro, la portaerei Zuikaku subì perdite di aerei e uomini significativi, che ridussero la capacità offensiva giapponese. Anche se gli Alleati avevano subito diverse perdite, i giapponesi non riuscirono a portare a termine la loro invasione di Port Moresby. La Battaglia del Mar dei Coralli fu quindi un punto di svolta nella Guerra del Pacifico, poiché fu la prima volta che la Marina imperiale giapponese subì una pesante sconfitta navale. Sebbene gli Alleati avessero perso una portaerei, la flotta giapponese non riuscì a raggiungere i suoi obiettivi di invadere Port Moresby e avanzare nel Pacifico meridionale. Fu un duro colpo per le ambizioni dell'Impero giapponese, poiché l'esito negativo nella battaglia rallentò le sue successive operazioni militari e pose le basi per un'efficace controffensiva alleata. I nipponici si trovarono costretti a ridisegnare le proprie strategie e gli obiettivi prefissati.
Battaglia delle Midway
La Battaglia delle Midway, combattuta dal 4 al 7 giugno 1942, è stata una delle battaglie navali più decisive della Seconda guerra mondiale. Rappresenta un punto di svolta nello scenario del Pacifico, in cui gli USA pur essendo in inferiorità numerica, inflissero una sconfitta cruciale alla Marina imperiale giapponese.
L'atollo di Midway è situato a oltre 3 000 chilometri a nord-ovest delle Hawaii e a circa 6000 dalle coste giapponesi. La posizione strategica delle Midway lo rendeva un obiettivo importante per entrambe le forze in guerra nel Pacifico. Per il Giappone prendere il controllo dell'atollo avrebbe permesso di rafforzare la difesa del suo impero. Dopo aver provocato ingenti danni a Pearl Harbor, il Giappone cercava di distruggere una volta per tutte la flotta statunitense nel Pacifico, così da ridurre le possibilità di una controffensiva. L'ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto pianificò l'attacco a Midway con l'obiettivo di attirare la flotta americana in un'imboscata. Yamamoto decise di impiegare una forza significativa che comprendeva quattro portaerei (Akagi, Kaga, Soryu e Hiryu), diverse navi da battaglia, incrociatori e cacciatorpediniere. Il piano prevedeva che una forza navale principale attaccasse Midway, mentre un reparto secondario avrebbe agito come esca, tentando di attirare la flotta nemica in un confronto decisivo.
Gli americani, sotto la direzione dell'ammiraglio Chester Nimitz, avevano un programma per difendere Midway e distruggere la flotta giapponese. Infatti grazie a cruciali informazioni di intelligence, in particolare l'intercettazione e la decodifica dei messaggi giapponesi, i comandi statunitensi furono in grado di anticipare gli spostamenti delle imbarcazioni giapponesi. Nimitz concentrò le sue forze principali su tre portaerei, già operative nel Pacifico. Inoltre le unità di supporto includevano diversi incrociatori e cacciatorpediniere.
La battaglia iniziò il 4 giugno 1942, quando la flotta giapponese iniziò il suo attacco nelle Midway. Gli USA prevedendo l'attacco avevano preparato una strategia per difendere l'atollo. Sebbene i giapponesi riuscirono a danneggiare alcune strutture, l'isola resistette grazie alla rapida reazione delle forze difensive. Mediante le informazioni in loro possesso, gli americani furono in grado di localizzare con precisione la flotta giapponese. L'ammiraglio Nimitz ordinò quindi una serie di attacchi aerei contro le navi giapponesi. Gli statunitensi lanciarono attacchi con bombardieri e caccia sia dalla base militare che dalle portaerei. Il primo gruppo di attacchi, composto da bombardieri in picchiata, non riuscì a infliggere danni significativi. L'esito decisivo della battaglia si verificò quando alle prime ore del mattino del 4 giugno, gli attacchi aerei americani presero di mira la flotta nipponica. La portaerei Akagi, che era al centro della formazione giapponese, fu colpita gravemente. Seguirono colpi fatali alle altre tre portaerei giapponesi. L'Akagi e la Kaga affondarono, mentre le altre due furono immobilizzate e quindi distrutte. Le portaerei giapponesi, che erano il cuore della potenza navale della Marina imperiale, vennero quindi distrutte in poche ore. La perdita di queste navi, insieme a centinaia di piloti esperti e altre perdite gravi, segnò una svolta nella guerra nel Pacifico a favore degli Alleati. Nonostante la devastante perdita, la flotta giapponese lanciò un ultimo contrattacco dalla Hiryu. Tuttavia anche quest'ultima imbarcazione fu infine affondata dagli statunitensi, decretando così la fine delle capacità aeree giapponesi nella battaglia. Lo scontro delle Midway si concluse perciò con una schiacciante vittoria per gli USA.
Campagna di Guadalcanal
Questa campagna si rivelò essere non solo una serie di battaglie terrestri e navali, ma anche un conflitto di volontà, determinazione e risorse. Il controllo dell'isola di Guadalcanal fu l'obiettivo principale dello scontro. L'importanza strategica di Guadalcanal era fondamentale, poiché l'isola situata nell'arcipelago delle Isole Salomone, ospitava l'Aeroporto Henderson Field che avrebbe permesso alla Marina imperiale di controllare le rotte marittime nel Pacifico meridionale, minacciando così l'Australia, la Nuova Guinea e la Nuova Zelanda. Inoltre sarebbero state a rischio anche le linee di rifornimento tra gli Stati Uniti e i suoi possedimenti nell'Oceano Pacifico.
La missione fu nominata Operazione Watchtower, la quale iniziò il 7 agosto 1942 con lo sbarco delle forze alleate su Guadalcanal, Tulagi e le Isole Florida. Circa 11.000 Marines statunitensi, supportati da una flotta navale, sbarcarono sull’isola. I marines riuscirono a prendere velocemente il controllo dei territori in questione. Gli Alleati poterono quindi impossessarsi dell'aeroporto, localizzato nell'area lungo la costa nord-orientale di Guadalcanal. Tuttavia i giapponesi avevano in programma di impadronirsi nuovamente dell'isola e iniziarono a progettare una rapida controffensiva. I militari del Sol Levante tornarono alla carica già nelle ore successive, in quella che passò alla storia come la Battaglia dell'isola di Savo. La flotta giapponese attaccò con sette incrociatori pesanti (Chōkai, Atago, Suzuya, Maya, Furutaka, Kinugasa, Aoba) supportati da imbarcazioni minori. I giapponesi si avvicinarono alla flotta alleata durante la notte, senza essere rilevati dalla sorveglianza radar o visiva. L'uso delle tenebre e delle condizioni atmosferiche favorì il loro avvicinamento e il successivo attacco. Le navi giapponesi avvicinatesi a una distanza ravvicinata, aprirono il fuoco sulle imbarcazioni alleate con una velocità e una violenza sorprendente. Il risultato immediato fu devastante per le forze alleate. L’incrociatore USS Quincy fu colpito da numerosi proiettili e affondò in meno di 30 minuti. L'USS Astoria e l'USS Vincennes furono anch’essi gravemente danneggiati e affondarono poco dopo. Le perdite alleate furono considerevoli, con circa 1.400 marinai statunitensi e australiani uccisi, mentre le forze giapponesi subirono perdite molto più contenute. L'incrociatore americano USS Chicago, nonostante fosse gravemente danneggiato riuscì a ritirarsi dalle acque della battaglia. Fu una vera disfatta per le forze navali alleate.
Dopo la dura sconfitta subita in mare, gli Alleati provano a riorganizzarsi con l'arrivo di nuove risorse. L'aeroporto dell'isola viene dotato di nuovi velivoli, principalmente Grumman F4F Wildcat e Douglas SBD Dauntless. Il 21 agosto i nipponici provarono a riappropriarsi della struttura aeroportuale di Henderson Field. Questo attacco fu sostenuto da un ampio contingente di soldati, che comprendeva circa 3.000 uomini capitanati dal generale Harukichi Hyakutake. Il tentativo di riconquista fu massiccio, con il supporto di artiglieria pesante e tentativi di sopraffare i difensori statunitensi mediante un uso massiccio di fanteria e assalti a corpo a corpo. I giapponesi avevano sperato che un attacco rapido e violento avrebbe potuto sopraffare la resistenza statunitense e riportare rapidamente l’aeroporto sotto il controllo dell'Impero giapponese. I nipponici sebbene numericamente superiori, incontrarono una tenace resistenza da parte dei Marines. L’attacco giapponese fu prolungato per settimane e si concentrò principalmente su una posizione difensiva chiave a sud di Henderson Field, una collina strategicamente importante che dominava l’area circostante. Fu proprio questo luogo ad ospitare la Battaglia di Edson's Ridge. I marines erano ben addestrati e preparati, ressero saldamente infliggendo pesanti perdite agli assalitori giapponesi. Grazie a un’efficace difesa, supportata da armi automatiche, mitragliatrici e artiglieria, le forze alleate respinsero l’avanzata dei giapponesi, che tentarono invano di aggirare le posizioni alleate. Nonostante i numerosi "attacchi banzai", i giapponesi quindi non riuscirono a penetrare le linee difensive statunitensi.
Settimane dopo ebbe luogo un altro evento significativo della campagna, la Battaglia di Capo Speranza. La mattina dell'11 ottobre, il gruppo militare di Takatsugu Jōjima salpò dalle Isole Shortland per attraversare il canale di Nuova Georgia e dirigersi verso Guadalcanal. Accompagnato da sei cacciatorpediniere e due incrociatori, Jōjima ebbe la protezione dell'aeronautica, che organizzò due attacchi sulla pista di Henderson Field. Nonostante ciò i bombardamenti giapponesi non riuscirono a danneggiare significativamente le forze nemiche. Nel pomeriggio i giapponesi vennero avvistati dagli aerei da ricognizione alleati, che informarono il contrammiraglio Norman Scott. Egli si preparò ad intercettarli con un attacco notturno. Durante la stessa sera, le navi di Scott si avvicinarono a Guadalcanal e sorpresero l’Aoba che venne gravemente danneggiata, riportando la morte del comandante Aritomo Gotō. La battaglia continuò fino a quando le forze giapponesi non cominciarono a ritirarsi. I danni inflitti alle navi della marina nipponica furono significativi: oltre all’Aoba anche la Furutaka e la Fubuki furono colpiti pesantemente. La vittoria degli Alleati sebbene tatticamente rilevante, non ebbe un grande impatto strategico.
Tra il 25 e il 27 di ottobre si combatté un'altra battaglia di notevole impatto nella Campagna di Guadalcanal, quella delle Isole Santa Cruz. La battaglia ebbe inizio intorno alle 11:00 del 25 ottobre, quando la principale forza giapponese comandata dall'ammiraglio Chūichi Nagumo fu avvistata da un idrovolante in pattugliamento nell'arcipelago di Santa Cruz. Si trovava a circa 350 miglia nautiche (650 km) al di fuori del raggio d'azione delle portaerei americane. L'ammiraglio statunitense Thomas Kinkaid ordinò alle sue navi portaerei di avvicinarsi alla massima velocità alle imbarcazioni giapponesi e quindi lanciò un attacco con 23 aerei. Tuttavia i giapponesi si erano accorti dell'imminente agguato e virando verso nord non furono trovati dai velivoli americani. Nella notte del 26 ottobre, entrambe le fazioni inviarono aerei da ricognizione per localizzare il nemico. Due aerei Dauntless inviati per la ricognizione riuscirono, intorno alle 7:40 a colpire con bombe la portaerei nipponica Zuiho, rendendo inutilizzabile il suo ponte di volo. In due contrattacchi giapponesi del 27 ottobre provenienti dalla Shōkaku e dalla Zuikaku, la Enterprise fu danneggiata mentre la USS Hornet venne incendiata e affondata. Fu abbandonata e affondata durante la notte dalle cacciatorpediniere giapponesi Akigumo e Makigumo. Kinkaid decise intorno di ritirarsi verso est per ottenere supporto aereo dalle basi nelle Nuove Ebridi. I giapponesi, resi cauti dalla sconfitta nella Battaglia delle Midway, non riuscirono a inseguire la flotta americana. La corazzata USS South Dakota, che aveva ricevuto un colpo diretto da una bomba giapponese dal peso di 250 chili, durante il ritorno verso Nouméa, entrò in collisione con il cacciatorpediniere Mahan subendo lievi danni.
Conflitto in Nuova Guinea
Ben presto la Nuova Guinea (isola oggi spartita tra Indonesia e Papua Nuova Guinea) divenne uno degli scenari principali della guerra nell'Oceano Pacifico, con gli Alleati che lottavano contro le forze imperiali giapponesi per fermare la loro avanzata verso sud e proteggere l'Australia. Gli scontri furono determinanti per il successivo declino del potere giapponese e si contraddistinsero per alcuni eventi:
- Battaglia di Buna-Gona:
Nel novembre del 1942 le forze alleate, principalmente australiane e americane, iniziarono un’offensiva per riprendere il controllo dei piccoli villaggi di Buna e Gona, situati sulla costa orientale della penisola di Papua. Queste località erano state occupate dai giapponesi sin dall’anno precedente e costituivano una base strategica per le loro operazioni nel tentativo di riconquistare l'isola. La battaglia durò fino al gennaio 1943 e fu caratterizzata da duri combattimenti, condizioni ambientali difficili e una feroce difesa giapponese. La resistenza nipponica, combinata con il terreno paludoso e la giungla, fece sì che la battaglia si prolungasse più del previsto. Alla fine gli Alleati riuscirono a prevalere ma a un costo umano elevato, con pesanti perdite da entrambe le parti.
- Battaglia della Baia di Milne:
Nel marzo del 1943 gli Alleati lanciarono un'offensiva nella Baia di Milne, localizzata lungo la costa sud-orientale della Nuova Guinea, dove le forze giapponesi avevano stabilito una base militare. La battaglia aveva in palio il controllo di un'importante area che avrebbe potuto fungere da punto di partenza per ulteriori attacchi contro le linee di rifornimento nemiche. Le forze australiane, rinforzate da unità americane, sbarcarono nella zona e riuscirono a sopraffare le i giapponesi, i quali si ritirarono dopo aver subito gravi perdite. La vittoria alleata in questo frangente fu quindi significativa, poiché garantì loro la supremazia territoriale su una posizione strategica per future operazioni nella regione.
- Battaglia di Wau:
Un altro scontro fondamentale ebbe luogo nella cittadina di Wau, situata nell'entroterra della penisola di Papua. I giapponesi avevano tentato di consolidare il loro controllo su Wau, ma le forze alleate contrattaccarono con successo. La battaglia si svolse tra gennaio e febbraio del 1943 e vide l'utilizzo di tattiche di guerriglia da parte delle forze armate australiane che sfruttarono la conoscenza del terreno per sopraffare i giapponesi, purtroppo per loro non abituati alle difficoltà imposte dalla giungla.
- Battaglia del Mare di Bismarck:
Questo scontro ebbe luogo tra il 2 e il 4 marzo 1943, coinvolse operazioni navali nelle acque vicino alla Nuova Guinea, dove le forze giapponesi cercavano di ostacolare le operazioni alleate. La battaglia si sviluppò a seguito di un tentativo giapponese di inviare rinforzi per le proprie unità nella Nuova Guinea. Le forze navali alleate (tra cui la US Navy) riuscirono a infliggere pesanti perdite alla flotta giapponese, neutralizzando una parte significativa della sua capacità di supportare operazioni in Nuova Guinea. La battaglia fu un altro successo importante per gli Alleati, segnando un ulteriore passo verso il loro dominio nel Pacifico.
- Operazione Cartwheel:
Si trattò di una vasta offensiva alleata che iniziò nel giugno 1943 e si protrasse fino alle prime settimane del 1944. L'operazione aveva come obiettivo principale il ridimensionamento della capacità difensiva giapponese nella regione della Nuova Guinea e la progressiva riduzione delle linee di rifornimento giapponesi. Una delle operazioni più notevoli di questa offensiva fu la liberazione di Rabaul, città in cui si trovava un'importante base giapponese fondamentale per il controllo dell'arcipelago di Bismarck. L’operazione previde una serie di attacchi e sbarchi lungo le coste della Nuova Guinea e in altre isole del Pacifico, con un approccio che mirava a isolare le forze armate giapponesi e a ridurre progressivamente la loro capacità di resistenza. L'Operazione Cartwheel contribuì alla sconfitta finale giapponese nella regione e alla sicurezza dell'Australia.
Campagna delle Aleutine
La Campagna delle isole Aleutine fu una serie di operazioni militari che ebbero luogo tra il giugno 1942 e l'agosto 1943. Le Isole Aleutine sono un arcipelago situato al largo della costa sud-occidentale dell'Alaska, strategicamente rilevante sia per il controllo del Pacifico settentrionale che per la protezione della costa occidentale degli Stati Uniti e del Canada. La conquista dell'arcipelago avrebbe potuto fornire ai giapponesi un avanzato punto di appoggio strategico, minacciando così direttamente gli Alleati nel Nordamerica. Di conseguenza Il Giappone lanciò una serie di attacchi a sorpresa sulle Aleutine, cominciando con l’invasione delle isole di Attu e Kiska. L’obiettivo giapponese era occupare queste isole, impedire eventuali contrattacchi da parte degli americani e stabilire posizioni difensive lungo una nuova linea di fronte nel Pacifico settentrionale.
Il 3 giugno l'aviazione giapponese bombardò la base aerea statunitense di Dutch Harbor, situata sull'isola di Unalaska, che fungeva da punto di appoggio per le forze alleate. Nella stessa giornata un gruppo di navi giapponesi sbarcò nell'isola di Attu, mettendo rapidamente fuori combattimento le difese americane presenti. Entro pochi giorni i giapponesi riuscirono a prendere il controllo della maggior parte delle Aleutine. Come anticipato, pochi giorni dopo, (il 7 giugno) si verificò l'occupazione giapponese di Kiska, con cui i nipponici si posizionarono strategicamente per minacciare ulteriormente la regione e le difese statunitensi in Alaska. Anche se l’invasione si svolse senza grandi difficoltà, l'occupazione nipponica dell'arcipelago non passò inosservata agli Stati Uniti, che iniziarono immediatamente a pianificare un’operazione per riprenderne il controllo.
Nel maggio 1943 gli USA lanciarono l'Operazione Landcrab, destinata riconquistare Attu. La relativa battaglia iniziò in data 11 maggio, con lo sbarco delle forze americane sotto il comando del generale John DeWitt. I giapponesi, che intanto avevano fortificato le isole e preparato difese con trincee e bunker, si trovarono di fronte a una lotta estremamente dura. Pur numericamente di molto inferiori, i soldati imperiali combatterono con tenacia, cercando di mantenere il controllo dell’isola. Le forze americane tuttavia non si fermarono e i combattimenti, caratterizzati dalla difficoltà del terreno e dal clima estremo (temporali, forti venti, nebbia e temperature gelide), continuarono per settimane. Il 29 maggio la resistenza giapponese sull'Isola Attu venne infine sopraffatta, così i militari americani dichiararono la completa liberazione dell’isola. La battaglia causò pesanti perdite da entrambe le parti, con oltre 2.500 vittime giapponesi e circa 550 soldati statunitensi rimasti uccisi. Nel frattempo le forze alleate avevano iniziato i preparativi per una successiva offensiva su Kiska, l'ultima isola giapponese rimasta sotto il controllo nipponico nelle Aleutine. I soldati statunitensi e canadesi sbarcarono a Kiska il 15 agosto ma scoprirono presto che i giapponesi si erano ritirati senza combattere, comportamento molto insolito per l'Esercito imperiale. Tuttavia l'avanzata degli Alleati non fu affatto semplice, i nipponici prima della ritirata strategica avevano preparato insidie quali campi minati e trappole nascoste.
La campagna si concluse con la completa liberazione dell'arcipelago da parte degli Alleati. Sebbene l’occupazione giapponese delle Aleutine non sia stata una delle fasi più decisive della Seconda guerra mondiale, ebbe un’importante valenza strategica e psicologica. Per il Giappone la perdita delle Aleutine significò il fallimento nel riuscire a consolidare una posizione nel Pacifico settentrionale in grado di permettergli una minaccia concreta nei confronti degli americani. Per gli USA, la vittoria nella campagna mostrò la capacità di operare in ambienti difficili e la necessità di adottare nuove strategie nella guerra navale e terrestre contro le forze militari dell'Impero giapponese.
Battaglia di Tarawa
La Battaglia di Tarawa fu combattuta tra il 20 e il 23 novembre 1943. Si trattò di un’operazione anfibia alleata condotta principalmente dalla US Navy e dai marines, contro le forze imperiali giapponesi che occupavano l'atollo di Tarawa, situato nelle Isole Gilbert, un arcipelago nell'Oceano Pacifico centrale. La battaglia rappresentò una delle grandi offensive da parte delle forze americane che seguirono la Battaglia delle Midway. Fu il preludio di una nuova strategia volta a spingere l’avanzata alleata verso le isole del Giappone continentale.
La strategia alleata nel Pacifico si concentrava sul “salto di isole”, ovvero l'occupazione di isole chiave da utilizzare come basi per ulteriori attacchi. Tarawa era considerata quindi una una tappa strategica per avvicinarsi al Giappone, nonché alle isole di Saipan e Tinian, cruciali per l'offensiva finale nel Pacifico centrale. Tarawa, che comprendeva vari atolli, era un obiettivo significativo poiché oltre a garantire un vantaggio logistico, rappresentava una posizione da cui poter rifornire le successive operazioni e neutralizzare una delle più forti posizioni difensive giapponesi nell'oceano. Per la sua difesa i giapponesi si affidarono ad un corpo di 4 5000 soldati imperiali, tra cui truppe speciali d'assalto altamente competenti sotto gli ordini del contrammiraglio Keiji Shibasaki, il quale fece dotare l'isola di una fitta rete di fortini e trincee. La Marina imperiale giapponese aveva anche predisposto numerosi ostacoli, come recinzioni di filo spinato, bunker in cemento, mine antiuomo e trappole esplosive. Il tutto reso ancora più arduo da un suolo paludoso e da barriere naturali come foreste di mangrovie e banchi di sabbia lungo la costa. Lo schieramento alleato era invece sotto la guida dell'ammiraglio Chester Nimitz e del generale Holland Smith. La missione fu battezzata Operazione Galvanic e prevedeva lo sbarco delle forze anfibie statunitensi su Betio, il principale obiettivo che avrebbe permesso di neutralizzare le difese giapponesi e di stabilire una base per le future operazioni che avrebbero consentito agli Alleati di avvicinarsi alle principali isole nipponiche.
Il 19 novembre la preparazione dell'assalto iniziò con un intenso bombardamento navale e aereo che colpì le difese giapponesi su Betio. Gli Alleati si aspettavano che l'atacco avrebbe distrutto le principali fortificazioni, ma si rivelò meno efficace del previsto a causa della posizione difensiva delle forze giapponesi, ben protette nelle trincee e nei sotterranei dell'isola. Inoltre i giapponesi presenti sulla costa non furono completamente annientati dai bombardamenti e i sopravvissuti si rifugiarono con rapidità nelle loro posizioni fortificate. Il giorno successivo circa 35.000 soldati americani sbarcarono sulle spiagge di Betio, ma l’assalto si trovò immediatamente di fronte a una strenua resistenza nemica. Gli ostacoli disseminati nel terreno dai nipponici, come le barriere di filo spinato e i banchi di sabbia, resero particolarmente difficile l'approdo delle forze anfibie. I soldati statunitensi furono costretti a muoversi lentamente, sotto il fuoco continuo delle postazioni giapponesi. I marines in particolare, inizialmente presi di mira dalle mitragliatrici e dai bombardamenti di artiglieria nemici, subirono pesanti perdite mentre cercavano di avanzare verso l'entroterra. La situazione fu complicata ulteriormente da problemi logistici, come il malfunzionamento dei mezzi di sbarco e la difficoltà di trasportare rifornimenti attraverso le spiagge sature di acqua salmastra. Nonostante la superiorità numerica e materiale degli Stati Uniti, la resistenza giapponese fu feroce e determinata. I soldati giapponesi, ben addestrati e preparati a difendere ogni metro di terra, si asserragliarono nelle loro postazioni fortificate, resistendo a qualsiasi tentativo di avanzamento. Il comandante giapponese Shibazaki, ordinò ai suoi militari di prepararsi a combattere fino all'ultimo respiro, evitando qualsivoglia ritirata. Il combattimento divenne rapidamente un assalto all'arma bianca, con i giapponesi intenti a difendersi a colpi di baionetta e katana. Nonostante l'eroica difesa, le forze alleate cominciarono a sfondare le linee difensive giapponesi grazie all'uso di tecniche di assalto e all'impiego di un imponente supporto aereo e terrestre.
Dopo tre giorni di combattimenti estenuanti, le forze statunitensi riuscirono a sopraffare le unità giapponesi e presero il controllo dell’isola. Tuttavia la battaglia ebbe un costo terribile. Le perdite statunitensi ammontarono a circa 1 600 morti e oltre 2 000 feriti, mentre le forze giapponesi furono quasi completamente annientate. Circa 4.500 soldati giapponesi che morirono nel corso dei combattimenti. Solo 17 giapponesi sopravvissuti furono fatti prigionieri.
Fronte cinese
Supporto statunitense alla Cina
Mentre nel Pacifico l'espansione del Giappone doveva fare i conti con le forze armate degli USA e del Commonwealth, sul fronte sinico i giapponesi erano ancora impegnati nel conflitto che dal 1937 li vedeva impegnati contro la Repubblica di Cina. In seguito all'entrata in guerra degli USA, gradualmente gli americani iniziarono a offrire supporto ai cinesi nel conflitto che li vedeva opposti all'Impero del Giappone. La Cina fu dunque parte integrante degli Alleati, come riconosciuto nella Conferenza di Casablanca del gennaio 1943.
La resistenza cinese contro i giapponesi, nonostante fosse frammentata tra diverse fazioni, si distingueva per la sua determinazione e il sacrificio. Mentre il Kuomintang cercava di contrastare l'occupazione giapponese attraverso una guerra convenzionale, gran parte della lotta cinese si concentrava su una guerra di logoramento. La Cina subiva pesanti bombardamenti da parte delle forze aeree giapponesi, che cercavano di distruggere le infrastrutture vitali per la resistenza. Nonostante questo, i cinesi mantenevano attive le linee di comunicazione sotterranee e costruivano una rete di alleanze interne ed esterne per mantenere la resistenza. Anche il Partito Comunista Cinese, pur essendo spesso in conflitto con il governo del Kuomintang, conduceva una guerriglia efficace contro le forze giapponesi, attaccando le linee di rifornimento, le piccole guarnigioni e favorendo l'instabilità nelle aree occupate. La guerra di resistenza cinese divenne così una lotta su più fronti; una guerra di battaglie convenzionali per il KMT e una guerra di guerriglia per i maoisti, ma entrambi i gruppi erano accomunati dall’obiettivo di liberare la Cina dall'occupazione giapponese. L'amministrazione statunitense, guidata dal presidente Franklin D. Roosevelt, comprese che se la Cina fosse crollata sotto la pressione giapponese, la posizione strategica degli alleati nel Pacifico sarebbe stata gravemente compromessa. Nel 1942, gli Stati Uniti iniziarono a fornire assistenza militare ed economica alla Cina. Il Lend-Lease Act, approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1941, fu esteso alla Cina nel 1942. Questo atto consentì agli USA di fornire armamenti, rifornimenti, e materiali bellici alla Cina, che ne aveva disperatamente bisogno. Tuttavia la fornitura di aiuti non era semplice, poiché le rotte di rifornimento erano ostacolate dalle forze giapponesi e i convogli navali alleati dovevano affrontare il pericolo dei sottomarini e delle forze aeree nemiche. Un aspetto fondamentale del supporto statunitense fu la creazione di un "corpo di volo volontario" noto come i Flying Tigers. Questo gruppo di piloti americani, sotto il comando del generale Claire Lee Chennault, fu inviato in Cina per proteggere i convogli e supportare la resistenza cinese contro le incursioni aeree giapponesi. I Flying Tigers, che operavano principalmente nel sud della Cina, divennero un simbolo della cooperazione tra Cina e Stati Uniti, ottenendo importanti successi contro la superiorità aerea giapponese. La loro partecipazione in battaglie come quella di Chongqing, si rivelò una spina nel fianco per i giapponesi e fu determinante nel rallentare la loro espansione.
Operazione Ichi-Go
L'Operazione Ichi-Go si svolse tra il 30 aprile e il 15 agosto 1944 e rappresentò una delle ultime grandi offensive giapponesi sul fronte cinese. L'obiettivo principale dell'operazione era quello di raggiungere il Fiume Yangtze e conquistare le regioni meridionali della Cina per interrompere le linee di comunicazione tra l'Esercito nazionalista cinese del Kuomintang e i reparti militari statunitensi e britannici. Altro scopo era quello di garantirsi l'accesso alle ingenti risorse naturali della Cina meridionale, tra cui il carbone e il petrolio nelle province di Hunan, Guizhou e Guangxi. Il primo obiettivo giapponese fu la città di Changsha, che rappresentava un'importante base per il controllo delle rotte di rifornimento. I giapponesi riuscirono a superare le difese nemiche e a invadere la città, infliggendo pesanti perdite all'esercito cinese. Dopo una serie di scontri, i giapponesi conquistarono Changsha, ma la città non fu mai completamente pacificata e subì continui contrattacchi. Dopo aver conquistato Changsha, le forze giapponesi continuarono a spingersi verso sud-ovest, cercando di ottenere il controllo di Yiyang e delle città circostanti. Quì le forze giapponesi affrontarono una resistenza significativa, ma alla fine furono in grado di sopraffare i cinesi. Il piano giapponese mirava a raggiungere il Fiume Yangtze, una delle principali vie di comunicazione della Cina, per tagliare le linee di rifornimento alleate provenienti da sud. Le forze giapponesi avanzarono anche verso la regione del Guizhou e altre aree chiave del paese. Sebbene i giapponesi abbiano ottenuto una vittoria, l'esercito cinese, pur subendo pesanti perdite, riuscì a rallentare l'avanzata nemica grazie a tattiche di guerriglia e difese mobili. Le forze cinesi, pur essendo mal equipaggiate, erano ben motivate e combatterono strenuamente per difendere le loro terre. Molti civili furono accusati di dissidenza politica e vennero sistematicamente eliminati.
Le perdite umane furono ingenti da entrambe le parti. Le forze giapponesi subirono circa 60 000-70 000 tra morti e feriti, mentre le perdite cinesi furono ancor più pesanti, con circa 100.000 soldati che persero la vita durante i sanguinosi combattimenti. Malgrado la vittoria, il conflitto evidenziò la difficoltà per il Giappone di mantenere una guerra su due fronti, sia contro le forze alleate nel Pacifico sia contro nazionalisti e partigiani cinesi nel continente asiatico.
Declino dell'impero
Incursioni aree sul Giappone
I bombardamenti alleati sulle città giapponesi durante la Seconda guerra mondiale rappresentarono una delle fasi più devastanti del conflitto. Furono attuati con l'intento di indebolire la capacità bellica del Giappone e abbattere il morale della popolazione civile. Questi attacchii iniziarono nel 1942 e culminarono nel 1945, diventando una parte fondamentale della strategia alleata per vincere la Guerra del Pacifico. Le tecniche e gli obiettivi dei bombardamenti cambiarono nel corso del conflitto, passando da raid strategici e mirati a massicci bombardamenti incendiari. L'incursione aerea su Tokyo del 18 aprile 1942 fu una missione simbolica in cui 16 bombardieri statunitensi B-25 Mitchell colpirono la capitale del Giappone. Sebbene i danni materiali siano stati minimi e le vittime contenute, il raid ebbe un forte impatto psicologico sul Giappone, dimostrando che le forze salleate potevano colpire il cuore della nazione. Nel 1944, gli Alleati aumentarono progressivamente l'intensità dei bombardamenti sul Giappone continentale, iniziando ad utilizzare i bombardieri B-29 Superfortress, che avevano una capacità di carico e una portata molto superiori rispetto ai modelli precedenti.
Le grandi città nipponiche più colpite in questo periodo furono Kobe, Osaka, Nagoya e Yokohama; che ospitavano industrie vitali per la macchina bellica giapponese. Altre città minori coinvolte furono ad esempio Tokushima, Fukuyama e Kofu; le quali furono distrutte per circa l'80% delle loro infrastrutture. Infatti se inizialmente lo scopo dei raid alleati era quello di colpire punti strategici militari e industriali, con il proseguire della guerra i bombardamenti miravano anche a colpire i centri residenziali. Ciò aveva il preciso obiettivo di indebolire il morale della popolazione e paralizzare economicamente il Giappone. Nel 1945 la strategia dei bombardamenti cambiò drasticamente sotto la direzione del generale Curtis LeMay, che adottò una strategia di bombardamenti incendiari. Infatti utilizzando bombe incendiarie per distruggere le città giapponesi e causare incendi su larga scala, il risultato era assicurato in quanto la maggior parte delle città giapponesi di quell'epoca era costruita in legno. Questo rendeva la distruzione ancora più devastante. I bombardamenti di Tokyo del 9-10 marzo 1945 furono uno degli attacchi più letali di tutta la guerra. Più di 279 bombardieri B-29 lanciarono bombe incendiarie su gran parte di Tokyo, generando fiamme devastante che distrussero circa 40 chilometri quadrati della città e uccisero quasi 100 000 persone in una sola notte. Questo tipo di bombardamento fu poi replicato anche in altre città, con effetti a dir poco devastanti. Fu il caso di Toyama, città costiera affacciata sul Mar del Giappone, che fu completamente rasa al suolo.
Perdita delle Filippine
Dopo l'occupazione dell'arcipelago filippino nel 1942, gli Alleati intrapresero una serie di operazioni per riconquistarlo. Nel giugno 1944 ci fu la Battaglia del Mar delle Filippine, conclusasi con la sconfitta giapponese ad opera degli uomini guidati dal comandante Marc Mitscher, i quali distrussero gran parte della forza aerea nemica, la flotta giapponese perse infatti circa 400 aerei, mentre gli USA ne persero 130. Considerata una delle più grandi battaglie navali della storia, quella combattuta dal 23 al 26 ottobre del medesimo anno nel Golfo di Leyte vide anch'essa la vittoria degli Alleati, ai quali garantì il controllo delle rotte marittime verso le Filippine. I soldati statunitensi, comandati da MacArthur, furono infatti in grado di sbarcare e iniziare la riappropriazione dell'arcipelago. La buona riuscita della missione consentì infatti ulteriori sbarchi come nel caso di Luzon. Mentre tre anni prima la Battaglia di Bataan fu decisiva per la conquista giapponese delle Filippine, nel febbraio 1945 fu la Battaglia di Corregidor a segnare un punto di svolta a favore degli Alleati. Il 3 marzo seguente difatti gli invasori giapponesi capitolarono nella Battaglia di Manila e la città venne così liberata. Lo scontro urbano causò ingenti perdite civili e distruzione delle principali infrastrutture. Oltre alla distruzione degli aerei, la flotta giapponese subì anche l'affondamento di alcune navi, ma il danno più grave fu la perdita della sua capacità di proseguire operazioni offensive nel Pacifico.
Battaglia di Saipan
La Battaglia di Saipan (15 giugno - 9 luglio 1944) fu una delle battaglie più cruciali e sanguinose del Pacifico. Essa segnò una tappa decisiva nell’avanzata alleata verso l'arcipelago giapponese, in quanto Saipan (Isole Marianne) era considerata un punto strategico per l’invasione del Giappone continentale. Le forze statunitensi erano sotto il comando del generale Holland Smith, già impegnato nello scontro di Tarawa. Ai suoi ordini circa 71 000 uomini, supportati da una flotta di portaerei, incrociatori e navi da guerra.
Il 15 giugno 1944 gli Stati Uniti iniziarono l’offensiva con un massiccio bombardamento aereo e navale. Aerei statunitensi, tra cui Grumman F6F Hellcat e Grumman TBF Avenger, bombardarono le difese nemiche e le infrastrutture sull’isola. Nello stesso giorno, le forze navali alleate effettuarono il bombardamento navale delle posizioni giapponesi. Il bombardamento fu seguito dallo sbarco delle forze alleate sulle spiagge di Saipan. La resistenza giapponese fu imponente, con il fuoco delle mitragliatrici che incrociava le linee di sbarco, causando ingenti perdite tra i marines americani. Nonostante ciò, gli Alleati riuscirono a stabilire una testa di ponte. Nei giorni successivi, gli scontri tra le truppe statunitensi e giapponesi divennero ancor più intensi e si trasformarono in una guerra di trincea. Le forze giapponesi difendevano le loro posizioni con ferocia, sfruttando i bunker e le fortificazioni sotterranee. Uno dei momenti chiave avvenne sul Monte Tapochau, una collina divenuta simbolo della resistenza giapponese. Dopo giorni di combattimenti, i marines Alleati riuscirono a conquistare la vetta, ma non senza pesanti perdite. Dopo circa due settimane di feroci scontri, i giapponesi avevano ormai perso gran parte delle proprie posizioni difensive, ma la loro resistenza non cessò. Il 7 luglio 1944, con la stragrande maggioranza delle forze nipponiche ormai distrutte o messe fuori combattimento, le ultime resistenze furono abbattute. I giapponesi sopravvissuti si ritirarono verso il Monte Marpi, nell’angolo settentrionale dell’isola. Il luogo è noto anche come "scogliera dei suicidi", poiché i giapponesi vi adottarono la tattica del suicidio, gettandosi nel vuoto per non farsi catturare dagli statunitensi. Così il 9 luglio, l’isola fu dichiarata completamente sotto controllo degli Alleati, i quali però ancora una volta pagarono a caro prezzo la loro vittoria, con oltre 3 000 perdite umane. La perdita di Saipan fu un duro colpo per il Giappone. Le vittime giapponesi furono pesanti, circa 29 000 morti tra soldati e civili (inclusi i suicidi di massa).
Battaglia di Iwo Jima
Nella strategia di avvicinamento al Giappone continentale degli Alleati, Iwo Jima era considerata una tappa fondamentale. Prima dello sbarco, le forze alleate intrapresero un'intensa campagna di bombardamenti aerei e navali. Poi a partire dall'8 dicembre 1944, l'aviazione degli Stati Uniti iniziò attacchi quotidiani sulla piccola isola giapponese. Tuttavia nonostante l'intensità dei bombardamenti, le difese imperiali rimasero in gran parte intatte, poiché ancora una volta i militari giapponesi avevano scavato passaggi e fortificazioni in profondità.
Lo sbarco delle truppe statunitensi avvenne il 19 febbraio 1945, con l'obiettivo di conquistare rapidamente l'isola. Le unità giapponesi comandate dal generale Tadamichi Kuribayashi, avevano preparato una resistenza tenace, schierando un imponente sistema di fortificazioni difensive, tra cui bunker, trincee e tunnel sotterranei. La battaglia si trasformò in un conflitto prolungato, caratterizzato da combattimenti corpo a corpo e da una resistenza giapponese piuttosto determinata. Il 23 febbraio 1945, dopo sei giorni di combattimenti intensi, i marines riuscirono a conquistare il Suribachi, la vetta più alta dell'isola. In quell'occasione i soldati Alleati issarono la bandiera statunitense sulla cima del monte, un momento immortalato nella celebre fotografia di Joe Rosenthal. Questa immagine divenne un simbolo della determinazione e del sacrificio delle forze alleate nella guerra contro il Giappone. Nonostante la conquista del Monte Suribachi, i combattimenti continuarono tuttavia per oltre un mese, con le forze giapponesi che si ritirarono in posizioni più difendibili. La resistenza nipponica si concluse soltanto il 26 marzo, con il quasi totale annientamento della guarnigione. Le perdite furono elevate da entrambe le parti, gli Stati Uniti malgrado la presa di Iwo Jima registrarono oltre 26 000 tra morti e feriti, mentre i giapponesi persero circa 22 000 uomini. Questo scontro rappresentò l'unico episodio nella campagna del Pacifico in cui gli Stati Uniti subirono più perdite rispetto ai giapponesi. La conquista di Iwo Jima fornì agli Stati Uniti una base strategica per le operazioni aeree sul Giappone. L'isola divenne un punto di sosta per i bombardieri B-29, offrendo supporto alle missioni di bombardamento sul territorio nipponico. Inoltre, la battaglia evidenziò la determinazione delle forze giapponesi nella difesa del loro territorio.
Battaglia di Okinawa
L'Esercito imperiale era sempre più sofferente, gli Alleati decisero di approfittarne per compiere un passo decisivo verso l'occupazione delle quattro principali isole del Giappone. Impossessarsi delle Isole Ryūkyū e in particolare di Okinawa divenne una priorità per l'alleanza antigiapponese, soprattutto per gli USA. Situata oltre 500 chilometri a sud-ovest del Giappone continentale, che la annesse all'interno del suo territorio nazionale nel 1879, Okinawa divenne suo malgrado teatro di una delle più cruente battaglie del Pacifico. L'armata statunitense comandata dal generale Simon Bolivar Buckner Jr., comprendeva oltre 60 000 soldati e si preparava ad un'invasione senza precedenti nella storia delle Isole Ryūkyū. Il tenente generale Mitsuru Ushijima, a cui era stata affidata la difesa dell'isola, disponeva di circa 76 000 soldati, supportati da riserve locali e da una popolazione civile mobilitata al grido Banzai!.
Il 1° aprile 1945 le forze alleate avviarono l'Operazione Iceberg, con lo sbarco lungo la costa occidentale di Okinawa. Inizialmente l'avanzata alleata incontrò resistenza limitata, ma man mano che le forze si addentravano nell'isola, si scontrarono con le robuste difese giapponesi, tra cui il Castello di Shuri, cuore del sistema difensivo nipponico a Okinawa. I soldati giapponesi adottarono tattiche difensive efficaci, sfruttando grotte fortificate e terreni difficili. La resistenza si rivelò più ostinata del previsto, prolungando gli scontri e causando pesanti perdite alle forze alleate. La popolazione civile di Okinawa fu coinvolta direttamente nel conflitto, spesso costretta a partecipare alle operazioni difensive. Purtroppo molte donne locali subirono stupri durante l'occupazione del Giappone da parte USA.
Il 29 maggio 1945, dopo intensi combattimenti, le forze alleate conquistarono il Castello di Shuri, simbolo della resistenza giapponese. Nonostante la perdita di questo punto strategico, i giapponesi continuarono a combattere nel sud dell'isola. La battaglia si concluse definitivamente il 22 giugno 1945, con la ritirata delle ultime forze nipponiche.
Utilizzo dei kamikaze
Il termine kamikaze, che significa "vento divino", si riferisce agli attacchi suicidi effettuati dai piloti giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. La tattica kamikaze fu adottata dal Giappone quando la situazione nel Pacifico cominciò a diventare disperata. Dopo una serie di pesanti sconfitte seguite dall'occupazione delle isole strategiche da parte degli Alleati, la Marina imperiale giapponese si trovò sempre più incapace di contrastare la potenza navale degli Stati Uniti. Inoltre le risorse, in particolare il carburante e i rifornimenti destinati agli aerei, erano diventati insufficienti. Di fronte a questa situazione critica, il Giappone iniziò a cercare soluzioni estreme per fermare l'avanzata alleata. L'idea dei kamikaze si basava sul principio del sacrificio totale per la nazione, un concetto radicato nella cultura e nella tradizione giapponese, che vedeva il soldato come pronto a dare la propria vita per l'imperatore e per la patria. Durante le ultime fasi della guerra, il Giappone cercò quindi di usare la morte volontaria dei propri piloti come una strategia per infliggere danni significativi alla flotta statunitense. I kamikaze venivano inviati a schiantarsi intenzionalmente contro le navi nemiche, causando danni devastanti. Questi attacchi furono progettati per affondare navi da guerra americane, in particolare portaerei e incrociatori.
Il primo uso documentato di attacchi suicidi da parte dei piloti giapponesi avvenne durante la Battaglia di Leyte, durante la quale circa 80 aerei kamikaze colpirono le navi statunitensi. Sebbene le forze americane riuscirono a infliggere danni considerevoli alla flotta giapponese, l'uso di attacchi suicidi rivelò un nuovo e terribile tipo di minaccia. Dopo Leyte l'uso dei kamikaze divenne sempre più sistematico. Nel 1945 con la guerra che volgeva al termine, il Giappone lanciò una lunga serie di attacchi kamikaze contro le forze alleate, specialmente durante le battaglie per le isole di Iwo Jima e Okinawa. Fu proprio in quest'ultima battaglia che i kamikaze raggiunsero il loro apice. Tra aprile e giugno del 1945, oltre 1 000 aerei kamikaze giapponesi furono schiantati contro le forze americane. Gli attacchi kamikaze erano condotti principalmente da piloti giovani, spesso senza esperienza di combattimento aereo, i quali venivano addestrati per compiere missioni suicide. L'addestramento era relativamente breve e si concentrava sulla tecnica per dirigere gli aerei contro i nemici. I piloti nipponici utilizzavano vari tipi di aerei, ma quelli più comuni erano gli Zero, i Kawasaki Ki-61 e altre aeronavi della Marina imperiale. Gli aerei in questione venivano equipaggiati con grandi quantità di carichi esplosivi e lanciati infine verso i bersagli.
Epilogo finale
Hiroshima e Nagasaki
Alla metà del 1945, la guerra era quasi giunta al termine, ma il Giappone nonostante le gravi perdite non dava segno di voler arrendersi. Le forze alleate avevano già inflitto pesanti perdite, tra cui la Battaglia di Okinawa e i bombardamenti incendiari su Tokyo e altre città giapponesi. Il governo imperiale giapponese tuttavia continuava a resistere, perciò gli Alleati prevedevano un'invasione del Giappone (Operazione Downfall), la quale tuttavia avrebbe causato milioni di morti, sia tra i soldati Alleati che tra i civili giapponesi. In questo contesto il presidente USA Harry S. Truman, coadiuvato dai suoi consiglieri militari e scientifici, prese la decisione di utilizzare la bomba atomica come mezzo per costringere il Giappone a capitolare senza necessità di un'invasione terrestre. La speranza era che il devastante potere della nuova arma, avrebbe convinto il Giappone ad arrendersi rapidamente, evitando ulteriori perdite di vite umane e la possibilità che l'arcipelago potesse finire sotto il controllo dei sovietici, che a loro volta stavano valutando l'eventuale occupazione del paese. L'atomica era il risultato di uno dei progetti scientifici più segreti e ambiziosi della storia, noto come il Progetto Manhattan. Questo programma fu avviato nel 1942, coinvolgendo scienziati e ingegneri da tutto il mondo; tra cui il fisico J. Robert Oppenheimer, che divenne il direttore scientifico del progetto. Il 16 luglio 1945 negli Stati Uniti avvenne il primo test di una bomba atomica nel deserto del New Mexico (il Test Trinity), che confermò l'efficacia della nuova arma.
Il bombardamento di Hiroshima avvenne il 6 agosto 1945. La città fu scelta per le sue dimensioni e il suo valore militare. Hiroshima ospitava una base militare, depositi di munizioni e infrastrutture industriali cruciali per l'esercito giapponese. La bomba atomica lanciata sulla città si chiamava "Little Boy" ed era una bomba a uranio-235. Alle ore 8:15 del 6 agosto, l'Enola Gay, un bombardiere B-29 pilotato da Paul Tibbets, sganciò la bomba. L'esplosione liberò un'energia equivalente a circa 15 000 tonnellate di trinitrotoluene, polverizzando la città in un attimo. La bomba esplose a circa 600 metri sopra il centro di Hiroshima. La conseguente onda d'urto e il calore intenso uccisero immediatamente circa 70 000-80 000 persone. Molti altri morirono nei giorni successivi a causa delle ferite e delle radiazioni. La città fu devastata, con circa 90% degli edifici distrutti e oltre 140 000 abitanti che morirono entro la fine dell'anno, a causa degli effetti immediati e delle successive malattie legate alle radiazioni sprigionate.
Tre giorni dopo il bombardamento di Hiroshima, il 9 agosto 1945, gli Stati Uniti sganciarono una seconda bomba atomica su Nagasaki, una città portuale situata nell'isola meridionale di Kyushu. La bomba utilizzata su Nagasaki era una bomba a plutonio-239 chiamata "Fat Man". Anche Nagasaki aveva valore strategico, ma la sua geografia montuosa si tradusse in un'esplosione che non ebbe la stessa portata di distruzione totale che si era invece verificata a Hiroshima. La bomba esplose a quasi 500 metri sopra la città, causando immediatamente la morte di circa 40 000-75 000 persone. Altri 75 000 abitanti morirono nei mesi successivi per le radiazioni. Nonostante la distruzione, possiamo quindi affermare che la geografia di Nagasaki è stata determinante nel contribuire a limitare gli effetti dell'ordigno.
L'uso delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki è stato oggetto di intenso dibattito. I sostenitori della decisione sostengono che l'uso della bomba accelerò la fine della guerra, salvando probabilmente milioni di vite, evitando un'invasione del Giappone e ponendo fine a un conflitto che si stava prolungando senza segni di una fine rapida. Tuttavia molti critici, sia all'epoca che adesso, ritengono che i bombardamenti siano stati inutili e disumani, poiché il Giappone era già vicino alla resa e che le atrocità inflitte ai civili furono esagerate rispetto agli obiettivi militari. I bombardamenti sollevano anche interrogativi morali sul fatto che sia giustificabile l'uso di una tale arma di distruzione.
Invasione sovietica
L'URSS aveva mantenuto una posizione neutrale nei confronti del Giappone durante la maggior parte della Seconda guerra mondiale, poiché impegnata a contrastare l'avanzata nazista sul fronte europeo. Tuttavia il Patto nippo-sovietico di non aggressione firmato nel 1941, sarebbe scaduto nel 1945. Durante la Conferenza di Yalta (febbraio 1945), Iosif Stalin promise al presidente americano Franklin D. Roosevelt, di entrare in guerra contro il Giappone tre mesi dopo la fine della guerra in Europa, che avvenne con la capitolazione della Germania l'8 maggio 1945. Quindi il 9 agosto, l'Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone e iniziò immediatamente l'invasione dei territori giapponesi occupati nel continente asiatico.
L'Armata Rossa iniziò l'operazione contro il Giappone invadendo il Manciukuò, le Isole Curili e la prefettura di Karafuto, situata nel sud di Sakhalin. Le forze sovietiche, dopo un’intensa offensiva, avevano già occupato le principali città della regione, tra cui Harbin e Changchun. Entro la fine di agosto, i sovietici avevano annientato la resistenza giapponese in Manciuria, infliggendo pesanti perdite all'Armata del Kwantung, la principale forza giapponese di stanza in Asia continentale. Essa fu sconfitta in breve tempo, con circa 80 000 soldati sovietici impegnati nell'operazione. Le forze giapponesi erano estremamente demoralizzate e in molti casi, avevano già perso la capacità di combattere efficacemente. Parallelamente l'occupazione della prefettura di Karafuto fu rapida e altrettanto devastante. I militari URSS sbarcarono e avanzarono in modo fulmineo, infliggendo pesanti perdite e occupando la quasi totalità dell'isola entro il 20 agosto 1945. La caduta del capoluogo Toyonaka segnò la fine del controllo giapponese su queste terre. Le forze sovietiche prevedevano di occupare anche l'isola di Hokkaido ed eventualmente anche la regione del Tohoku, come parte di un'offensiva su larga scala. Questo sarebbe stato un atto di enorme importanza strategica, poiché avrebbe consentito ai sovietici di stabilire una solida presenza nel paese.
A questo punto i giapponesi temevano non solo la perdita di terre strategiche, ma anche una possibile repressione brutale. Ciò avrebbe certamente incluso l'instaurazione di un regime comunista filo-sovietico, oltre a pesanti deportazioni, violenze e repressioni nei confronti dei civili giapponesi. Quindi sebbene i giapponesi avessero una visione sfavorevole dell'occupazione da parte degli Stati Uniti, consideravano quest'ultima come un "male minore" rispetto alla possibilità di un'occupazione sovietica.
Resa incondizionata
L'inarrestabile avanzata alleata nel Pacifico, le incursioni strategiche nelle città giapponesi, l'invasione da parte dell'Armata Rossa sovietica e soprattutto i bombardamenti atomici subiti da Hiroshima e Nagasaki; furono tutti elementi che indussero il governo imperiale ad arrendersi. Il 15 agosto 1945, l'Imperatore giapponese Hirohito annunciò ufficialmente la resa del Giappone alla radio nazionale in un discorso storico che divenne noto come il Gyokuon-hōsō, ovvero "Trasmissione della Voce del Gioiello". Fu la prima volta in cui l'imperatore parlava direttamente al popolo giapponese. L'annuncio sebbene importante dal punto di vista formale non era del tutto una sorpresa, dato che il Giappone aveva già subito pesanti sconfitte nei mesi precedenti, specialmente dopo l'invasione delle Ryūkyū da parte delle forze alleate, i bombardamenti incendiari e infine l'uso delle bombe atomiche.
Il contenuto dell'annuncio fu conciso e per la cultura giapponese, estremamente significativo. L'imperatore spiegò che il Giappone, pur avendo combattuto con coraggio e onore, si trovava di fronte a una situazione insostenibile. La decisione di arrendersi fu presa "per il bene della pace mondiale", e il discorso menzionava esplicitamente l'impossibilità di continuare la guerra a causa delle "nuove e terrificanti armi" (riferendosi alle bombe atomiche).
La decisione di arrendersi tuttavia non fu unanime all'interno del governo giapponese. L'imperatore Hirohito giocò un ruolo decisivo nel determinare la fine del conflitto, scegliendo di seguire il consiglio del governo e dei consiglieri più pragmatisti che vedevano la resa come una soluzione ormai inevitabile. Ci furono però forti resistenze tra i militari, alcuni dei quali volevano continuare a combattere fino alla fine. Infatti il militare Kenji Hatanaka, contrario alla resa, radunò altri membri dell'Esercito imperiale e del Ministero della Guerra che condividevano il suo pensiero e tentò di attuare un colpo di Stato. L'episodio è ricordato come "Incidente di Kyūjō" e si concluse con un nulla di fatto, dato che la ribellione fu sventata e alla fine, non potendo impedire che l'audio in cui l'imperatore annunciava la resa del Giappone venisse trasmesso alla nazione, Hatanaka si uccise con un colpo di pistola; mentre altri ribelli addirittura furono costretti a commettere seppuku (suicidio rituale) per espiare il disonore derivato dal loro tradimento.
Nonostante l'annuncio pubblico della resa effettuato dall'imperatore, il Giappone non era ancora formalmente capitolato. La resa ufficiale, che sancì la fine della Seconda guerra mondiale, avvenne il 2 settembre 1945, a bordo della nave da guerra statunitense USS Missouri nella Baia di Tokyo. La cerimonia di ratificazione vide la presenza di numerosi alti ufficiali alleati e giapponesi. Il rappresentante degli Stati Uniti, il generale Douglas MacArthur, firmò per conto degli Alleati, mentre il ministro degli Esteri giapponese Mamoru Shigemitsu, firmò per il Giappone. La firma avvenne in un'atmosfera carica di solennità, con una cerimonia che durò circa 20 minuti. La resa non solo segnò la fine della guerra, ma stabiliva anche le condizioni per l'incombente occupazione del Giappone da parte degli Alleati.
Occupazione alleata
Processo di Tokyo e crimini di guerra
Il Processo di Tokyo (ufficialmente noto come Tribunale Militare Internazionale per l'Estremo Oriente) fu un processo giudiziario che si tenne tra il 1946 e il 1948 per giudicare i crimini di guerra commessi dai leader giapponesi durante la Seconda guerra mondiale contro la popolazione civile in numerosi paesi occupati, tra cui la Cina, le Filippine, la Corea e altri territori nel Sud-Est asiatico. Il processo fu uno degli eventi più significativi della storia di Tokyo e dell'intero Giappone; si trattò dell'equivalente giapponese del Processo di Norimberga contro i nazisti. Il Tribunale si concentrò su crimini di guerra, crimini contro l'umanità e crimini contro la pace, mirando a punire i principali vertici del regime militare giapponese per le atrocità commesse durante il conflitto. Le accuse includevano massacri e uccisioni di prigionieri, sfruttamento del lavoro forzato, tortura, esperimenti umani (Unità 731), bombardamento di civili, violenze sessuali e genocidio. Un solo giudice rigettò tali accuse, si trattava dell'indiano Radhabinod Pal, esponente del nazionalismo indù e fervente antibritannico.
Il processo di Tokyo iniziò nel maggio del 1946, sotto la supervisione degli Alleati, con l'accusa di crimini di guerra contro 28 dei principali leader giapponesi, tra cui politici, generali e altri membri del governo. Tra i principali imputati figuravano Hideki Tojo, Hiranuma Kiichiro, Kuniaki Koiso e Seishiro Itagaki. Il tribunale fu composto da giudici provenienti da 11 paesi alleati, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica, Cina, Francia, Paesi Bassi e altri. Il processo fu segnato da un ampio dibattito giuridico e morale, con alcune critiche alla legittimità del tribunale, in particolare riguardo alla sua imparzialità e al fatto che molti dei crimini di guerra furono giudicati retroattivamente, basandosi su leggi che non esistevano prima del conflitto. Il Tribunale Militare Internazionale per l'Estremo Oriente si concluse nel novembre del 1948. Dei 28 imputati, 7 furono condannati a morte e giustiziati (tra cui Hideki Tojo), 16 furono condannati a lunghe pene detentive e 2 furono assolti. Tre imputati morirono durante il processo. Il tribunale fu cruciale per il giudizio sui crimini di guerra giapponesi e per l'affermazione del principio di responsabilità individuale per le atrocità commesse.
Ruolo di MacArthur
La resa del Giappone segnò la fine dell'impero, la perdita di tutte le colonie e l'inizio di un periodo di occupazione alleata che avrebbe mutato radicalmente il paese, sia a livello politico che sociale. L'occupazione fu determinata principalmente dalla volontà degli Alleati, guidati dagli Stati Uniti, di ristrutturare e democratizzare il Giappone per evitare future aggressioni e garantire la pace in Estremo oriente. La decisione di occupare il Giappone fu formalizzata con la Dichiarazione di Potsdam del 26 luglio 1945, con cui gli Alleati chiesero la resa incondizionata del Giappone e delinearono i termini per la sua rifondazione. Douglas MacArthur, generale militare nella regione del Pacifico, fu nominato comandante supremo delle forze alleate. Egli espresse un messaggio di pace, affermando la necessità di mettere da parte le divergenze, nella speranza che i giapponesi collaborassero per ricostruire la nazione attraverso principi democratici. Malgrado sporadici episodi di violenza, le truppe statunitensi attuarono un comportamento corretto nei confronti della popolazione civile e al contempo i giapponesi (logorati da anni di guerra) si dimostrarono collaborativi. Tuttavia il sentimento di rabbia e sfiducia nei confronti dei leader militari e politici che avevano tradito il popolo con la speranza di una vittoria bellica, si ripercosse sul morale dei cittadini. Le forze di occupazione alleate erano principalmente statunitensi, infatti ad eccezione di poche truppe provenienti dal Commonwealth britannico, Cina e URSS non inviarono mai truppe nell'arcipelago, come previsto invece in un primo momento. Il progetto di MacArthur prevedeva lo smantellamento del sistema militarista attraverso il bando dell'Associazione per il sostegno dell'autorità Imperiale e del Partito della Gioventù del Grande Giappone, nonché l'abrogazione di tutte le forze armate.
L'economia del paese fu allineata a quella prevista dal capitalismo americano, tramite l'abolizione degli Zaibatsu (grandi conglomerati finanziari, industriali e imprenditoriali) e l'adozione del libero mercato. Fu inoltre intrapresa una vasta riforma agraria per ridistribuire la terra ai contadini. La riforma puntava a smantellare il sistema feudale che aveva dominato l'Impero giapponese, riducendo il potere dei grandi proprietari terrieri. Vennero in aggiunta attuate riforme significative nel settore dell'educazione, con l'introduzione di un'istruzione civica più aperta, democratica e pacifica. Venne incoraggiata la libertà di stampa e furono vietate la propaganda militare e nazionalista.
Nuova Costituzione
Il progetto di Costituzione della Repubblica Popolare Giapponese ebbe vita breve, difatti pur tollerando i partiti socialisti e comunisti all'interno della nuova politica del Giappone democratico, gli Stati Uniti spinsero per la rifondazione di un Sol Levante affine alla liberaldemocrazia e orientato nel blocco occidentale. La Costituzione Meiji del 1889 era ormai obsoleta, gli Alleati necessitavano di un testo costituzionale che affermasse i principi democratici e liberali che avrebbero dovuto guidare il Giappone postbellico. Nel 1947 fu così varata la nuova Costituzione del Giappone; una delle più pacifiste al mondo e che stabilisce chiaramente la necessità di rispettare i diritti umani, la sovranità popolare e l'esistenza di un sistema parlamentare. Tutti valori basilari per ogni paese democratico.
La nuova Costituzione inoltre rivoluzionava il ruolo dell'imperatore all'interno della società giapponese. Le forze alleate decisero infatti di mantenere l'esistenza della figura imperiale come simbolo culturale e nazionale del Giappone, ma ne limitarono enormemente la funzione. L'imperatore venne infatti privato del suo potere politico, diventando una figura prettamente cerimoniale e simbolica. A tal proposito Hirohito fu costretto ad affermare la "Dichiarazione della natura umana dell'imperatore", con cui rinunciò al proprio status divino conferitogli dalla mitologia giapponese; la quale a sua volta sin dalla fondazione del Giappone lo inquadrava come principale capo religioso nella storia dello shintoismo. Ciò fu un'azione assolutamente imprescindibile per attuare l'abolizione dello shintoismo di Stato ed affermare il laicismo come valore fondante della nuova politica nazionale giapponese.
Affermando che "Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all'uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali.", l'articolo 9 della Costituzione del Giappone abolì l'esercito, la marina la, Kempeitai (polizia militare) e la Tokkō (polizia politica). Pacifismo e antimilitarismo divennero valori fondanti, in quanto gli Alleati volevano reprimere qualsiasi ritorno al bellicismo della società nipponica. L'Esercito imperiale fu sostituito dalle Forze di autodifesa, mentre la Marina imperiale lasciò il posto alle Forze marittime di autodifesa. Nonostante la retorica pacifista il Giappone aveva infatti bisogno di un corpo armato capace di proteggere il paese, soprattutto in un Asia orientale minacciata dalla Guerra Fredda con la Russia stalinista, la Cina maoista e la Corea filo-sovietica.
Riabilitazione nella comunità internazionale
Dopo la macchia della Seconda guerra mondiale, il nome del Giappone fu ripristinato grazie al Trattato di San Francisco, firmato l'8 settembre 1951. Si trattò di un accordo internazionale che sanciva la fine ufficiale dello "stato di guerra" tra il Giappone e le potenze alleate che avevano preso parte al conflitto. Fu ratificato dal Giappone e da altri 49 nazioni, tra cui gli Stati Uniti, l'Australia, la Gran Bretagna, la Francia, la Cina e altri paesi coinvolti nella guerra contro l'Impero giapponese. L'URSS e alcuni altri stati non firmarono il trattato, a causa di divergenze politiche. Il trattato entrò in vigore il 28 aprile 1952, data in cui il Giappone riacquisì la propria sovranità. L'occupazione finì, sebbene gli USA mantennero truppe nel paese, soprattutto a Okinawa, dove prima istituirono un governo militare e poi un'amministrazione civile. Il piccolo arcipelago subtropicale fu restituito al Giappone solo nel 1972, ma gli statunitensi continuano ancora oggi a mantenervi una copiosa forza militare. Il Giappone postbellico infatti stipulò un accordo di cooperazione militare con gli USA. I giapponesi quindi affidarono la sicurezza nazionale per buona parte nelle mani del nuovo alleato, per potersi meglio concentrare nella ripresa economica. Questa è la base della Dottrina Yoshida, strategia politica che permise il miracolo economico giapponese.
La completa riabilitazione si ebbe infine con l'adesione alle Nazioni Unite nel 1956. Tuttavia un aspetto importante della riabilitazione del Giappone fu anche la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con i paesi asiatici quali Cina e Corea del Sud, che furono parte dell'impero coloniale. In particolare, le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese rimasero complicate per molti anni, soprattutto a causa del Trattato di Shimonoseki, dei danni causati dalla due guerre sino-giapponesi e dall'occupazione nipponica in Cina. Tuttavia a partire dal 1972 il Giappone e la Cina si impegnarono in una riapertura delle relazioni politiche sotto la diplomazia del ping pong, un processo che segnò l'inizio di una cooperazione bilaterale più ampia tra i due principali schieramenti della geopolitica globale. Per quanto riguarda i rapporti con la Repubblica di Corea, la situazione benché assai complicata a causa dei precedenti tra i due paesi, fu resa più semplice dal fatto di essere entrambe nazioni alleate degli Stati Uniti. Il Trattato di normalizzazione dei rapporti tra Corea del Sud e Giappone fu siglato nel 1965 e divenne fondamentale per gli equilibri politici della regione.
Note
Bibliografia
- Edward J. Drea, L'Esercito imperiale giapponese, La Clessidra, 2024, ISSN 979-12-5521-156-3.
- Jonathan Clements, Samurai, shōgun e kamikaze. La grande storia dell'impero del Sol Levante, Giunti, 2020, ISSN 978-88-09-88986-6.
- Kenneth G. Henshall, Storia del Giappone, Mondadori, 2021, ISSN 978-88-04-67823-6.
Voci correlate
- Australia nella seconda guerra mondiale
- Italia nella seconda guerra mondiale
- Germania nella seconda guerra mondiale
- Portogallo nella seconda guerra mondiale
- Regno Unito nella seconda guerra mondiale
- Spagna nella seconda guerra mondiale
- Stati Uniti d'America nella seconda guerra mondiale
- Thailandia nella seconda guerra mondiale
- Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale
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